Equiparare l'evasione a un furto non ci aiuterà a combatterla
Nel dibattito sui media è frequente l’identificazione dell’evasione fiscale col reato di furto, di denaro altrui (chi evade costringe gli altri contribuenti a pagare di più) o servizi pubblici (chi evade le imposte beneficia gratuitamente di servizi pagati da altri).
Quest’equazione non è soltanto un modo di dire: dietro allo stigma vi è l’idea di un comportamento antisociale, tenuto da soggetti che, rubando risorse alle collettività, meritano il carcere. Così, anziché interrogarsi sulle reali cause del fenomeno, lo si ipostatizza, evocando lombrosianamente una figura di delinquente abituale (il ladro-evasore), ideale capro espiatorio dei mali che affliggono la società (ah, se non ci fosse l’evasione…).
L’equiparazione in questione è però fallace e soprattutto controproducente.
Anzitutto, è quasi banale dover osservare che, giuridicamente, chi evade non si appropria di cose altrui, ma evita di dare alla collettività le proprie. Così come non è un ladro il cliente che non onora il debito verso il fornitore, non lo è neppure chi si sottrae all’obbligazione di pagamento in cui consiste il dovere tributario. A meno di non voler sostenere che i privati non hanno alcun valido titolo, moralmente giustificato, al proprio reddito ante imposte, come sostengono le teorie consequenzialiste del diritto originario dello stato sulle proprietà dei singoli.
In secondo luogo, è erroneo pensare che l’evasione vada automaticamente a discapito degli altri contribuenti, costringendoli a farsi carico delle quote di contribuzione inevase. Questo poteva essere vero al tempo delle imposte di ripartizione, in cui lo stato fissava a priori un certo gettito da riscuotere, e poi ripartiva i diversi “contingenti” sulle comunità locali, che dovevano spalmarlo tra i propri membri. In quei sistemi, il mancato pagamento del singolo si traduceva in effetti in un diretto aggravio per gli altri concittadini. Ma oggi, scomparse le imposte di ripartizione, i tributi non sono più debiti collettivi, e lo stato non è un “grande condominio”, in cui i consociati devono farsi carico delle quote dei contribuenti morosi. Il mancato gettito dei tributi evasi può invece dar luogo a reazioni differenziate, come una riduzione o rinvio di spese (magari inutili), l’abolizione di agevolazioni, il ricorso al deficit o all’indebitamento, a un più efficiente sfruttamento del patrimonio pubblico, all’introduzione di altri tributi gravanti su diverse categorie di contribuenti, e così via.
Si dirà: l’evasore sottrae indirettamente denaro pubblico, avvalendosi di servizi a fronte dei quali non ha corrisposto il dovuto. Anche questo argomento, però, “prova troppo”; le imposte non sono infatti rette dal principio di contropretazione, e si pagano – sulle ricchezze possedute – a prescindere dalla specifica richiesta o godimento di servizi pubblici, o all’opposto non si pagano – se quelle ricchezze mancano – senza per questo precludere l’accesso ai servizi pubblici. Nella misura in cui questi sono “indivisibili”, poi, il free-riding non ne aumenta il costo complessivo (si pensi alle spese per difesa, ordine pubblico, funzionamento del sistema giudiziario) o ha su di esso un effetto impercettibile.
L’identificazione tra evasori e ladri, oltre a implicare arresti in massa (alzi la mano chi non ha mai pagato in nero un fornitore e così evaso l’Iva), trasforma un disfunzionamento del sistema pubblico di accertamento e riscossione delle entrate, in una devianza privata.
[**Video_box_2**]Chi evade è semplicemente un soggetto che ne ha l’occasione e valuta come trascurabile il rischio di essere scoperto, e in cui prevale, almeno per un momento, l’ancestrale istinto proprietario, rispetto a un astratto ideale di solidarietà verso i propri simili. Tutti conosciamo l’importanza e il carattere necessario dei tributi, ma è compito dello stato “imporli”, senza illudersi che gli stessi arriveranno grazie al senso civico e alla moralità dei cittadini. Ridurre l’evasione a una devianza sociale da correggere con misure penitenziarie non ci aiuterà invece a comprenderla e a farvi fronte.
Dario Stavanato è professore ordinario di Diritto tributario all’Università di Trieste, autore per il Mulino de “La giustificazione sociale dell'imposta”