Il grande "loop" dei mercati
Roma. Il presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, è stata moderatamente ottimista sullo stato dell’economia americana, fugando i dubbi di un’altra recessione, pur tuttavia è stata costretta a un atteggiamento ancora una volta ondivago parlando davanti al Congresso ieri sera: a causa delle turbolenze sui mercati finanziari la Fed non ripeterà a breve la mossa decisa a dicembre con un rialzo dei tassi – dopo lunghe consultazioni ed errori di comunicazione notevoli – ovvero l’inizio di una stretta monetaria graduale. Yellen pare avere rassicurato i mercati per lo spazio di poche ore. Le parole del banchiere centrale più influente del mondo, cui tutti gli operatori stavano guardando, sono servite a poco. Oggi le Borse sono tornate in rosso, a cominciare da quelle asiatiche. Le altre seguiranno come in un “loop”, un circolo vizioso, per cui gli operatori sentono l'odore del sangue e aggrediscono i punti deboli delle diverse aree economiche a turno.
Yellen, nella sua infinita cautela, ha anche indicato la Cina come "rischio centrale" per l'economia americana e mondiale accodandosi al sempre comodo “China bashing” – il “dàgli al cinese” va molto di moda – che ha dato il la al nuovo smottamento borsistico odierno, iniziato infatti a Hong Kong. Pochi notano però che i ribassi dei listi occidentali proseguono da inizio settimana nonostante le Borse cinesi e limitrofe fossero chiuse per festività. Dunque è solo la Cina che propaga incertezza? Inoltre recenti indicatori suggeriscono che l’economia cinese rallenta ma non tracolla– con statistiche da prendere con le pinze – l’indice di fiducia delle imprese cinesi è ancora in territorio positivo, e l’indebolimento artificiale della valuta, lo Yuan – punto chiave dell'analisi di Yellen – è una conseguenza di quanto è stato consigliato al governo cinese di fare per potere entrare nel paniere delle principali valute del Fondo monetario internazionale (che conserva fiducia nel governo di Pechino).
Certo, l’establishment cinese dimostra di non avere la capacità di governare le turbolenze finanziarie in un mercato domestico che comunque sconta eccessive ingerenze delle autorità pubbliche. Tuttavia la Cina non è l’unica cui dare la colpa. Anche nella siderurgia i cinesi sono diventati un facile alibi per molti. La Cina sta effettivamente inondando il mercato europeo e nordafricano con prodotti a basso costo ma non è del tutto corretto addossare alla sovracapacità produttiva asiatica – un problema di lungo corso – la colpa della chiusura di alcuni stabilimenti europei. C’è un 40 per cento di realtà, e un 60 per cento di codinismo da parte di chi lo dice. In Gran Bretagna quando parlano di import cinese dimenticano il comportamento del governo che per anni non si è mosso sui costi energetici troppo alti, i produttori che non hanno investito sul valore aggiunto, e più in generale dimenticano la non competitività del manufatturiero inglese che negli ultimi anni ha perso molte occasioni per ripartire. Le aziende siderurgiche invece usano "l’uomo nero cinese" come scudo per ridurre forza lavoro e output d'acciaio. In Spagna ArcelorMittal sta chiudendo stabilimenti per “motivi legati all’import cinese” ma sono anni che progetta di ridurre la produzione e concentrarsi su altri prodotti. La Cina fa comodo.
Dopodiché si nota un rapporto sempre più distorto tra finanza ed economia reale (qui un'analisi di Brookings), che è sì puntellata di rischi gravi e segnali poco rassicuranti (Maersk, un barometro dei commerci internazionali, prevede condizioni più difficili del 2008) ma dopotutto la crescita economica prosegue e la fiducia degli operatori dell’industria e dei servizi non è sotto le scarpe, positiva o neutra, mentre nell'UNione europea nel complesso il tasso di occupazione è tornato ai livelli pre-crisi nel terzo trimestre dell'anno scorso portandosi al 70,6 per cento. I due mondi – finanza ed economia reale – non sono mai stati così distanti, o almeno non sono così collegati come lo erano venti anni fa. Ma le autorità monetarie faticano a calmare la speculazione. I banchieri centrali stanno dando segnali discontinui al mercato e le loro parole rassicuranti hanno sempre meno appeal. I rialzi borsistici durano poco sia successivamente a decisioni robuste – l’adozione di tassi negativi da parte della Bank of Japan – sia a discorsi melliflui – come quelli di Mario Draghi, un banchiere che decisamente sa come sussurrare ai mercati difendendo il suo programma di stimoli monetari contro qualsiasi critica. L'esercizio di equilibrismo si fa però sempre più arduo mano a mano che gli strumenti vengono utilizzati e le formule retoriche perdono gradualmente di efficacia.
[**Video_box_2**]Un rischio concreto è che il “loop” delle Borse incida davvero sull’economia reale per tramite delle banche, cruccio supremo d’Europa dove in un momento di incertezza si sta stringendo la regolamentazione comunitaria. Deutsche Bank ha perso il 42 per cento in Borsa da inizio anno. Unicredit, Credit Suisse, Societe Generale, Ubs, Credit Agricole, Santander, Royal Bank of Scotland sono tutte cadute del 25 per cento almeno dal 1° gennaio di quest’anno. La caduta nella patrimonializzazione di Borsa se durerà a lungo contribuirà, insieme a una regolamentazione cangiante ma di certo più aspra, a suggerire ai banchieri maggiore cautela a elargire prestiti all’economia reale. E il “loop” rischia di ripetersi.