Kyle Bass, il "cecchino" del Texas, mette il mercato cinese nel mirino
La fuga di capitali più geniale l’ha escogitata una società cinese. Pochi giorni fa, segnala il Wall Street Journal, un alto dirigente di una ditta di Shanghai si è rivolto allo studio legale di Seattle, Harris & Moure, per versare 3,5 milioni di dollari a un presunto creditore americano, inventato per giustificare l’uscita di yuan verso gli Stati Uniti. L’operazione più temeraria l’ha tentata una “spallona” di Shenzhen, fermata alla dogana con un malloppo di 250 mila dollari sistemato attorno al ventre con un nastro di scotch. In mezzo ci sono i “puffi”, che passano la frontiera del Drago con 50 mila dollari. Un ottimo affare per le agenzie specializzate capaci di radunare fino a 500-1.000 finti turisti per trasportare fuori dal Celeste Impero la valuta da nascondere alle autorità fiscali o, più semplicemente, da far fruttare in maniera più redditizia. Un salasso che va avanti dall’estate, al ritmo di 100 miliardi di dollari al mese, tanti anche per un paese, la Cina, che a inizio 2015 vantava più di 4 mila miliardi di riserve, scesi a 3.200 miliardi a dicembre, secondo l’ultimo dato reso noto dalle autorità.
“Un altro segnale che la diga sta cedendo: la Cina è sull’orlo di una drammatica svalutazione perché le perdite del suo sistema finanziario sono almeno quattro volte superiori a quelle accumulate dalle banche americane prima della crisi dei subprime”. Parla così Kyle Bass, uno dei più noti gestori di hedge fund, l’avvoltoio che da mesi volteggia sui cieli cinesi. Certo, Bass non è il solo ad aver scommesso sulla svalutazione della moneta di Pechino, già prevista da George Soros. Ma nessuno si era spinto così avanti: la settimana scorsa i clienti del suo Hayman Capital (1,7 miliardi di raccolta) hanno ricevuto un report che, in 12 pagine zeppe di calcoli e tabelle, punta l’indice sulla fragilità del sistema di Pechino, dalla finanza ombra fino alle criticità del sistema bancario. Un siluro che ha lasciato il segno, vista la credibilità di Kyle detto “Sniper”, ovvero il cecchino, che si divide tra la casa di Los Angeles (è sposato con la responsabile dell’inserto tecnologia dell’Economist) e il ranch del Texas dove la domenica invita i colleghi hedge a sparare con i fucili della sua collezione (“Un centinaio, non di più”, minimizza), oppure ama competere con i veterani dei marines e degli altri corpi speciali feriti in guerra, invitati che non mancano mai nella sua tenuta che ama percorrere in lungo e in largo, tra dune e avvallamenti, alla guida di un Hummer dotato di rostri, cortine fumogene e chiodi da seminare sul terreno per allontanare gli eventuali assalitori. Pochi, a Wall Street, hanno il suo fiuto (e la sua ossessione) per gli assets, azioni, immobili o valute in odore di sopravvalutazione. Pochissimi possono vantare i suoi risultati: dal 1990 in poi ha accumulato quattrini sui disastri altrui, dal crack delle banche irlandesi alle insolvenze delle casse del Texas, passando per la Grecia, il Portogallo e la Spagna. Qualche volta ha fatto “flop”, come quando ha predetto la crisi della Svizzera o il collasso della sterlina. Ma il suo bilancio è largamente positivo.
[**Video_box_2**]Oggi, assieme a un manipolo di speculatori estremi, lo Sniper del Texas parte alla carica del bersaglio più grosso: la Cina, un osso durissimo. “Chi spera di fare i soldi contro Pechino nei prossimi dodici mesi raccoglierà solo un pugno di mosche”, sentenzia Paul Krake, un gestore di Hong Kong che pure per tre anni ha puntato, vincendo, contro la moneta cinese. Ma dopo la svalutazione di agosto la Repubblica Popolare ha tenuto fede alla promessa di difendere il cambio. Ma a un costo gigantesco che, scommette Bass, Pechino non potrà sostenere all’infinito. Nonostante le epurazioni, tipo quella che è costata il posto al presidente della Consob cinese Xiao Gang, fulminato dai rovesci dei mercati. Anche lui vittima, in un certo senso, di Kyle, l’American sniper che arriva da Dallas, Texas.