L'Arabia Saudita sbertuccia lo shale americano da Houston
Milano. “Sono qui per dirvi che sono di più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono. Non vogliamo far la guerra allo shale gas”. Alle nove meno dieci di martedì, la volpe del deserto Ali Bin Ibrahim al Naimi, signore del petrolio dell’Arabia Saudita, si presenta così nella tana del lupo texano: Houston, capitale del greggio americano, dove si tiene Ceraweek, il più importante incontro annuale dell’industria petrolifera. Parole di pace? Mica troppo, perché subito dopo il ministro saudita, che si occupa di petrolio dal 1947 (primo impiego a soli 12 anni) gela la platea ricordando che “io ho visto il petrolio a 1,47 dollari al barile. Ma sono sopravvissuto anche al peak oil. Penso di potermi adattare a qualsiasi situazione”. Ovvero, nessuno pensi che l’Arabia Saudita alzi bandiera bianca o che dietro la proposta, concordata con la Russia, di congelare la produzione ai livelli di gennaio ci sia un paese in difficoltà, obbligato a fare un passo indietro. O a corteggiare il grande nemico. Il ministro dell’Energia dell’Iran, Bijan Namdar Zanganeh che proprio ieri ha definito “semplicemente ridicola” la proposta di congelamento della produzione trovata a Doha tra Arabia Saudita, Russia, Qatar e Venezuela. Ma in assenza di un accordo, dice Al Naimi, il passo indietro dovranno farlo i paesi più deboli, con i costi di produzione più alti compresi i padroni dei pozzi spuntati in Texas ed Oklahoma sfruttando la tecnologia del fracking, redditizia solo a partire dai 50 dollari in su.
Al contrario, sull’onda delle dichiarazioni di ieri, il petrolio è tornato a perdere colpi, scivolando sotto i 33 dollari al barile. “Così vuole il mercato, aggiunge perfido lo sceicco del greggio – I prezzi, oggigiorno non vengono fissati sulla base di convenienze geopolitiche come, ad esempio, in occasione dell’accordo del 1986. Oggi vale solo la legge della domanda e dell’offerta”. Parole che, in quel di Houston, hanno il sapore di una vendetta. Dal porto di Corpus Christi, è salpata a Capodanno la Theo T, prima petroliera che, dopo 40 anni di blocco dell’export, ha caricato greggio americano destinato a una raffineria olandese. La settimana scorsa è stata la volta di un convoglio di Trefigura, una delle grandi potenze oil americane, salpato verso Israele. Operazioni che Riyad segue con preoccupazione, ancor più del tragitto delle superpetroliere che imbarcano da giorni il greggio iraniano. Il motivo? Lo spiega a Bloomberg Mark Mills, grande trader di Houston. “Secondo voi chi sceglierebbe un cliente europeo o coreano se, a parità di prezzo, potesse scegliere se comprare in Usa, Russia, Iran o Venezuela? Nessun produttore emergente può vantare la stessa credibilità e la stessa tutela in giudizio degli Stati Uniti”. Intanto, forse già la prossima settimana, Cheniere, produttore texano di gas liquido, invierà il suo primo tank in Asia, in attesa di raddoppiare la produzione grazie ai giacimenti australiani.
[**Video_box_2**]Tra non molto, prevedono gli esperti, la società di Houston farà una concorrenza spietata alla Russia. Nonostante il tracollo dei prezzi, la minaccia del petrolio americano incombe più che mai sulle previsioni dei signori del greggio, dentro e fuori dall’Opec. E spiega perché, dopo un anno di perdite sanguinose per tutti i protagonisti, i sauditi, almeno all’apparenza, non rinunciano a brandire l’arma della sovrapproduzione per mettere in ginocchio gli avversari, incuranti degli effetti collaterali: il collasso di Nigeria, Venezuela o altre nazioni petrolifere. La partita vera si gioca qui, nella tana del lupo di Houston che ha sì ridotto per ora la produzione dei pozzi ma che non ha intenzione di rinunciare alla nuova arma strategica del XXI° secolo: JP Morgan ha detto ieri che accantonerà nuove riserve per sostenere gli investimenti oil anche nel caso che il prezzo scivoli ai 25 dollari.