“Nascondersi non servirà”
L'assedio antisemita fin dentro il cuore dell'Europa, a Bruxelles
Bruxelles, dal nostro inviato. Esattamente una settimana fa, in queste ore, il palazzo Justus Lipsius di Bruxelles è stato circondato per due giorni e mezzo da una zona rossa. Un anello di sicurezza straordinario che viene attivato quando i capi di governo dei 28 paesi dell’Unione europea si riuniscono nella sede del Consiglio. Dentro questo anello si può camminare soltanto a piedi, soltanto per ragioni di lavoro come capita allo staff dei leader e ai giornalisti accreditati, e soltanto dopo essere stati perquisiti dalla polizia belga. Dentro la zona rossa, tuttavia, proprio la settimana scorsa, c’era un luogo ancora più off limits degli altri. Non quello dove si stavano parlando la cancelliera tedesca Angela Merkel e il premier britannico David Cameron, ma una palazzina identificata all’esterno da una targa d’ottone: “Eu Jewish Buildings”, o Eujb. Venerdì sera, per accedere al centro – che dal 2004 ospita una sessantina di organizzazioni ebraiche, laiche e religiose – bisognava superare i controlli di due militari belgi e poi quelli della sicurezza privata che lascia entrare soltanto una persona per volta. Dentro, semplicemente, si celebrava Shabbat. Ma in stato d’assedio.
Al piano rialzato dell’Eujb c’è una piccola sinagoga. Il rabbino Michoel Rosenblum, originario di Brooklyn a New York e da dodici anni in Belgio, ci dice fiero che “questa è l’unica sinagoga rimasta aperta, tra le dieci di Bruxelles, per celebrare Shabbat dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015. Di fronte a questi attacchi efferati, la risposta degli europei, anche di fede ebraica, non dev’essere quella di nascondersi”. Condivisibile. Ma dopo la recente ripresa di attacchi antisemiti, viene da chiedersi: si può ancora indossare una kippah in Europa senza sentirsi in pericolo?
“Can I wear my kippah in Europe?”, “Posso indossare la mia kippah in Europa?”, è il titolo dell’evento sull’antisemitismo organizzato una settimana fa a Bruxelles dalla cosiddetta “sinagoga europea” e dalla federazione continentale del B’nai B’rith. Rosenblum replica al quesito parlando proprio della situazione del Belgio: “In questo paese gli ebrei sono circa 50.000. Bruxelles e Anversa ospitano le comunità più antiche e numerose. Se possiamo indossare la kippah senza avere paura? Le rispondo in due modi. Ripetendo che nascondersi non è mai la soluzione. Ma anche ammettendo che nella comunità diventano sempre più frequenti i discorsi sull’extrema ratio che ci rimane: abbandonare l’Europa”. Spesso poi le parole diventano fatti: secondo la Jewish Agency, il 2015 è stato un anno record da questo punto di vista, con 9.880 ebrei europei che hanno lasciato le loro case per andare in Israele, e di questi circa 8.000 sono partiti dalla Francia. Circa il doppio rispetto a soltanto due anni fa. Il quotidiano New York Post, lo scorso gennaio, ha registrato il dato in un editoriale così intitolato: “Gli altri rifugiati: perché gli ebrei stanno lasciando l’Europa”.
Katharina von Schnurbein, passaporto tedesco e curriculum solidamente brussellese, è stata appena nominata dalla Commissione Ue come “coordinatrice della battaglia all’antisemitismo”. In una conversazione con il Foglio, ammette che “la Commissione europea è estremamente allarmata per l’aumento di attacchi a sfondo antisemita in alcuni stati membri. La situazione varia di molto da paese a paese. Secondo il Jewish community security service, per esempio, in Francia il numero di atti antisemiti registrati è raddoppiato nel 2014 rispetto all’anno prima. I cittadini di fede ebraica rappresentano meno dell’1 per cento della popolazione francese ma costituiscono la metà delle vittime di tutti gli attacchi razzisti che avvengono nel paese. Rileviamo pure numeri crescenti di partenze di cittadini ebrei. Come Commissione siamo convinti di quanto ha detto il nostro vicepresidente Timmermans: l’Europa, senza gli ebrei, non è più l’Europa”. Sono quattro le strategie seguite dalla Commissione per contrastare il fenomeno: rafforzare le politiche anti terrorismo; avviare un dialogo con i grandi gruppi dell’information technology e bloccare l’hate speech che si diffonde online; monitorare la piena applicazione di leggi ad hoc contro l’incitamento alla violenza; infine una maggiore attenzione ai processi educativi.
Un’ulteriore riflessione su quest’ultimo punto. Molti appartenenti alla comunità ebraica brussellese – che chiedono di rimanere anonimi – segnalano che l’origine degli atteggiamenti antisemiti è mutata nel tempo, e che è innegabile un ruolo crescente di cittadini e residenti di fede islamica. “Dobbiamo stare attenti a evitare generalizzazioni sui musulmani – risponde la Von Schnurbein – In Italia per esempio chi perpetra atti antisemiti, secondo lo Jewish policy research, è percepito nella maggioranza dei casi come appartenente alla sinistra politica (43 per cento), poi alla destra (32 per cento) e solo nel 17 per cento dei casi a un’ideologia estremista islamica”. Tuttavia la stessa responsabile della Commissione ammette che “non si potrà mai sottostimare la necessità di integrare i rifugiati e gli immigrati in generale. Le persone che vogliono rimanere in Europa devono aderire ai nostri valori, tra i quali non c’è spazio per l’antisemitismo”. E’ in questo quadro che a Bruxelles studiano con interesse, per esempio, il lavoro di alcune ong tedesche che adesso stanno analizzando i libri di testo su cui si sono formati i giovani richiedenti asilo siriani, specie riguardo la storia della Shoah e dello stato d’Israele. La Von Schnurbein, infine, ci tiene a sottolineare “l’importanza della reazione di media e società civile. Non smetterò mai di congratularmi per la scelta del Foglio e di Progetto Dreyfus di distribuire 15 mila kippah lo scorso 27 gennaio, nel giorno della Memoria. E’ un gran modo di reagire agli accoltellamenti di ebrei avvenuti a Marsiglia nei giorni immediatamente precedenti”.
[**Video_box_2**]Daniel Citone, presidente italiano di B’nai B’rith Europa, pur lodando gli sforzi istituzionali della Von Schnurbein, si chiede se Bruxelles si renda conto del fatto che alcune sue decisioni possono “offrire una sponda” a un clima che si incattivisce verso le comunità ebraiche: “Penso all’etichettatura dei prodotti degli insediamenti israeliani”. Inoltre, “se l’Ue vuole fare almeno un po’ di chiarezza sulle sue reali intenzioni, perché non mette al bando le campagne di boicottaggio, spesso istituzionali, contro Israele?”. Giriamo la domanda alla Von Schnurbein: “In una recente conversazione con il primo ministro israeliano Netanyahu, l’Alto rappresentante per la politica estera europea Mogherini ha sottolineato che l’etichettatura non equivale a un boicottaggio. Anzi, ha detto che l’Ue respinge con fermezza le campagne di boicottaggio, il cosiddetto Bds”.
Nelle strade di Bruxelles, certe posizioni rischiano di apparire meri sofismi. Nel centro della capitale europea, a due passi dalla luccicante zona del Sablon, il 24 maggio 2014, lo storico museo ebraico divenne l’obiettivo di un attacco terroristico. Quattro i morti. Il direttore del museo, dicono nella comunità, aveva rifiutato ogni protezione della polizia: “Il nostro, prima di essere ‘ebraico’, è un ‘museo’, aperto a tutti”, diceva. Mehdi Nemmouche, il ventinovenne francese di origini algerine oggi accusato della strage, e di cui poi si sono scoperti i legami con uno degli autori dell’attacco al Bataclan di Parigi, aveva trascorso un anno in Siria e la pensava diversamente. Per lui quel museo era “ebraico”, prim’ancora di essere un “museo”; dunque degno di essere assaltato. Oggi l’istituto rimane chiuso, e fuori ci sono due targhe commemorative: la prima ricorda gli ebrei belgi uccisi nel 1944 dai nazisti; la seconda gli ebrei uccisi nel 2014. Settant’anni dopo, sempre al centro dell’Europa.