Oggi dire adieu al Corriere non è tabù
Roma. “Gli Agnelli fuori dal Corriere della Sera? Davvero il mondo è a testa in giù”: lo stagionato manager che conosce dall’interno la famiglia reale del capitalismo italiano stenta a crederci. Certo, per chi segue da quasi mezzo secolo la quadriglia politico-finanziaria tra Torino e Milano, sembra un atto sacrilego. Ma il mondo in effetti s’è davvero rovesciato e la coppia Elkann-Marchionne, per quanto così diversa e non sempre affiatata, ne ha tratto le conseguenze. La Fiat senza l’Avvocato ha messo a segno il gran colpo americano con la presa sulla Chrysler, poi è uscita dalla Confindustria, la cassaforte di famiglia ha acquistato la quota principale dell’Economist spendendo oltre 400 milioni di euro, e adesso lascia anche l’ultimo dei salotti buoni quello che ancora detta legge al Corriere della Sera. Scelte parallele che portano entrambe nella dimensione multinazionale di un gruppo per il quale l’Italia è solo la vecchia casa madre.
La Fca è destinata a fondersi con un altro grande produttore e a questo appuntamento deve presentarsi compatta e pulita (perché mettere in bilancio dei giornali e per di più solo italiani?). Gli eredi Agnelli non hanno voglia di accollarsi debiti e oneri; l’ambizione editoriale (che Elkann ha annunciato da anni) si deve realizzare lungo un piano strategico, ambizioso, ma razionale. L’impensabile, allora, diventa possibile, anche un’alleanza con De Benedetti. E la Stampa?
“L’Avvocato aveva una vera passione solo per la Stampa – ha raccontato tempo fa Carlo De Benedetti – Quando ero amministratore delegato della Fiat, nel 1976, gli dissi: è un grande quotidiano regionale, perché non ne accentuiamo questa caratteristica e guadagniamo? Lui mi rispose: ‘Assolutamente no. Per me il massimo è vedere un professore dell’Università di Palermo che esce con la Stampa in tasca’. Agnelli ha fatto della Stampa un giornale di prim’ordine. Quando Gheddafi voleva far licenziare Arrigo Levi, lui ha resistito e non era uno che resisteva spesso. L’intervento al Corriere della Sera, invece, lo ha voluto Craxi”. Nella sua versione dei fatti l’Ingegnere ha ricostruito la vicenda in modo diverso da tutti gli altri, perché la vulgata vuole che Gianni Agnelli sia intervenuto a salvare la Rizzoli-Corriere della Sera per sottrarla a Bettino Craxi, sfidando Enrico Cuccia che lo invitava a stare lontano dai giornali in genere e dal Corriere in modo particolare. Si racconta del senso delle istituzioni (ancora e sempre l’azienda di sistema) e di una telefonata ricevuta dal presidente della Repubblica Sandro Pertini (socialista, ma non craxiano) che quasi ordina: “Avvocato ci pensi lei”. “Se fosse dipeso da lui non l’avrebbe fatto”, è la veresione dell’Ingegnere. Aveva comperato una quota dei Crespi per non lasciarli soli e per non lasciare il monopolio a Eugenio Cefis, il potente capo della Montedison, e al petroliere-editore Attilio Monti. Ma non aveva intenzione di infilarsi in una partita nella quale non poteva controllare le regole e i giocatori.
Nei primi anni 70, Giulia Maria Crespi, erede della dinastia tessile, innamorata persa di Mario Capanna, capo del movimento studentesco milanese, boccheggia, così Agnelli entra al Corriere per aiutarla, insieme al petroliere Moratti, patron dell’Inter. L’assetto dura appena un anno. L’Avvocato vuol fare il presidente di Confindustria e non intende avere contro Amintore Fanfani, il potente leader democristiano, che lo aveva già costretto a mollare l’Espresso dove Gianni era entrato per aiutare il cognato Carlo Caracciolo. Così, esce nel 1974. Ha ricordato Marco Benedetto, a lungo capo ufficio stampa della Fiat e poi direttore editoriale del Gruppo Espresso, che lo aveva convinto il suo plenipotenziario per l’editoria, Giovanni Giovannini, ma rischiò di perdere tutti i suoi soldi e lo stesso Giovannini pilotò l’uscita. Cedendo la sua quota, Agnelli avrebbe potuto sgravarsi di un peso ormai eccessivo e allo stesso tempo onorare la cambiale firmata mesi prima con il presidente di Montedison il quale a sua volta avrebbe deciso di abbandonare la Gazzetta del Popolo. La Crespi trattava con Andrea Rizzoli che per comprare la Rizzoli s’indebita gettandosi nelle braccia del Banco Ambrosiano di Guido Calvi e della P2 di Licio Gelli.
Il patto con Fanfani apre all’Avvocato la via della Confindustria con il “fanfaniano” Cefis suo vice. Ma la grande pacificazione verrà lacerata dagli anni di piombo. La Fiat rischia di crollare, si riprende, sconfigge i sindacati, mentre il Partito comunista viene respinto all’opposizione. Si apre l’èra Craxi e Agnelli rientra al Corriere. Nel febbraio del 1983, vengono arrestati Angelo Rizzoli e il suo amministratore delegato Bruno Tassan Din. Il Corsera è una voce senza più padrone. Cesare Romiti ammette che nemmeno lui lo voleva.
Fece tutto Giovanni Bazoli. “Un giorno – il racconto è ancora di De Benedetti – ci informò che la quota di Rizzoli era in vendita e sarebbe stato opportuno farla rilevare da imprenditori borghesi, indipendenti, com’era nella tradizione Agnelli me ne parlò, prospettandomi la possibilità di entrare come Gemina. Gli obiettai: ma scusi avvocato, siamo già in un mare di guai, tutto ci conviene tranne che comprare altra roba, Ma vedevo che non mi dava retta. Ne parlai subito con Cuccia, in fin dei conti ero finito a Torino su consiglio del patron di Mediobanca. Cuccia sgranò gli occhi: ma chi ve lo fa fare? I giornali sono solo fonte di rogne. Solo che Cuccia subiva il fascino di Agnelli, gli dispiaceva non accontentarlo. A sua volta Agnelli era pressato da Bazoli. Io cercavo di temporeggiare. Bisogna tener conto che l’Avvocato aveva due grandi passioni: i giornali e la diplomazia. E frenarlo nelle sue passioni era impossibile”.
Da quel momento in poi, il Corriere diventa il salotto parallelo, dove re Gianni ha lo ius primae noctis (è sua l’ultima parola sulla nomina del direttore) ma il comando è condiviso con Mediobanca e gli azionisti che fanno parte della finanziaria Gemina guidata da Romiti (ci sono i Pesenti, c’è Pirelli, Lucchini, Merloni). Il giornale segue l’onda, o meglio le onde tumultuose della politica italiana: i socialisti di Craxi hanno un peso all’interno, ma sono contenuti dal gioco di pesi e contrappesi. Giuliano Amato viene salutato come l’ultima diga di fronte all’alluvione Tangentopoli che coinvolgerà anche i massimi vertici della Fiat, ma poi entra in scena Silvio Berlusconi. Agnelli prima lo incoraggia, poi non lo ostacola, infine se ne distacca spinto soprattutto da Cuccia che tiene a debita distanza il Cavaliere.
Al Corriere arriva Paolo Mieli che intende agevolare il collasso della Prima Repubblica. Quando era direttore della Stampa aveva lanciato “il picconatore” Francesco Cossiga, allora presidente della Repubblica, (certo non contro le intenzioni del suo editore). Adesso, di fronte al vuoto lasciato dai partiti di massa, saranno i media, in rapporto con altri poteri forti come la magistratura, a determinare gli equilibri politici. Tra gli azzurri di Forza Italia resta vivo l’oltraggio del 1994 per lo scoop sull’avviso di garanzia a Berlusconi mentre si svolge a Napoli una conferenza internazionale sulla criminalità. E poi l’appoggio a Romano Prodi nel 2006. Ma a sua volta il centrosinistra non dimentica il tentativo di “take-over” (così lo ha chiamato lo stesso Mieli) e i giochi di sponda pro e contro D’Alema. Fino alla campagna sulla casta politica che apre la strada al Movimento 5 stelle salutato con speranza da Ernesto Galli della Loggia, l’editorialista più vicino a Mieli.
Nel 2005, l’anno delle scalate bancarie trasversali, protagonisti l’Unipol delle cooperative rosse, con un gruppo di immobiliaristi e finanzieri d’assalto, il Corriere rischia grosso e un outsider come Stefano Ricucci per un breve periodo diventa addirittura l’azionista numero uno di Via Solferino. Si parla di pactum sceleris tra Berlusconi e D’Alema (tanto per cambiare) benedetto da Antonio Fazio governatore della Banca d’Italia. Il salotto reagisce e viene messa in campo, ça va sans dire, la magistratura. E’ l’ultima prova della centralità del Corsera nell’establishment italiano, tesi della quale si fa portatore Bazoli al quale l’Avvocato sul letto di morte, nel gennaio 2003, ha affidato il mandato di “vegliare” su quella delicata macchina del consenso.
Il ruolo del vecchio banchiere non viene rimesso in discussione negli anni successivi, anche se nuovi azionisti come Diego Della Valle, esponenti di un’altra generazione e di un’altra leva imprenditoriale, mordono il freno contro “l’arzillo vecchietto”. Cesare Romiti avrà un peso importante finché resta alla presidenza della Rizzoli che ha voluto fortemente come buona uscita dalla Fiat. E lo stesso vale per Cesare Geronzi al vertice di Mediobanca. Entrambi stoppano Montezemolo (presidente della Fiat e di Confindustria) e Della Valle i quali vogliono nominare un direttore a loro vicino. Finché al Lingotto non prendono davvero il potere Marchionne ed Elkann il quale decide di esercitare la sua primazia proprietaria sulla Rcs.
Venerdì 21 settembre 2012, l’erede dell’Avvocato, al termine di una riunione interlocutoria del patto di sindacato che vincola il 58 per cento del capitale, si ferma nella sede in Via Solferino per un déjeuner di due ore con il presidente Alberto Provasoli e l’amministratore delegato Pietro Scott Jovane, i due uomini scelti nell’aprile vincendo le resistenze di Bazoli, e l’opposizione aperta di Diego Della Valle. Ma Elkann regna, non governa. Jovane fa il “lavoro sporco” tagliando, vendendo (dalla sede storica fino a cedere i libri alla Mondadori) per risanare il bilancio. Però il gruppo boccheggia, ha ancora bisogno di quattrini e l’ad molla, mentre la contesa per la successione a Ferruccio de Bortoli viene vinta dalla soluzione interna, Luciano Fontana, favorita da Bazoli. Dopo qualche mese di “esilio” al Corriere del Ticino, la penna dell’ex direttore torna a stilettare Matteo Renzi dalle colonne del Currierùn. Sarà una coincidenza, ma nel frattempo la Fca decide di non partecipare al nuovo aumento di capitale. Elkann che ha comprato l’Economist è entrato nella première league insieme ai Rothschild. Adesso vuole prepararsi a un nuovo futuro, senza il Corriere e probabilmente senza la Fiat come attività più rilevante.
[**Video_box_2**]“Oltre la Fiat”, corregge il nostro interlocutore, oltre i salotti ammuffiti del vecchio capitalismo italico, oltre Confindustria. Dopo quattro anni Marchionne si è fatto vedere di nuovo dalle parti di una lobby che non gli serve più. E’ tempo di un nuovo presidente anche se i giochi oggi sono meno scintillanti. L’ultima volta venne sconfitto da Giorgio Squinzi l’uomo più vicino alla Fiat, Alberto Bombassei, il re dei freni per auto. Oggi si contendono la poltrona due imprenditori medio-piccoli, il salentino Vincenzo Boccia, tipografo (che stampa tra l’altro la Repubblica), e l’emiliano Alberto Vacchi che fa macchine per il confezionamento di prodotti vari (entrambi fatturano poche centinaia di milioni di euro). L’influenza della lobby si è ridotta al minimo dopo la fine della concertazione decretata da Renzi che ha rottamato le confederazioni del lavoro e quella del capitale. Il prossimo presidente dovrà rivedere molte cose, tra le quali l’organizzazione e i costi. Anche la Confindustria ha il proprio progetto editoriale: fondere il Sole 24 Ore con il Corriere facendo entrare imprenditori dell’Assolombarda tra i quali i Rocca. Se ne parla da anni. A questo punto, l’uscita degli Agnelli potrebbe accelerare il piano.
E la Stampa? No, quella resta, anche se è destinata a cambiare, accentuando la dimensione regionale ed entrando in sinergia con la Repubblica. Sì, proprio perché questa sarebbe la scelta di fondo accompagnata dall’ingresso di Elkann (con Exor?) nel gruppo Espresso. Eugenio Scalfari nutriva verso Gianni Agnelli un rispetto reverenziale. E’ vero, lo chiamò “Avvocato di panna montata” quando uscì dall’Espresso, ma gli affari sono affari. I rapporti con De Benedetti sono sempre stati buoni anche se competitivi (semmai la ruggine era con Romiti). E la Repubblica servì spesso alla Fiat per veicolare notizie scottanti che non potevano passare per la Stampa e nemmeno per il Corriere (clamoroso lo scoop sul licenziamento di Vittorio Ghidella nel 1988). Eppure anche per i giornaloni italiani vale la legge dell’oltre: oltre Roma, oltre le Alpi persino. L’alternativa, con quel che attraversa oggi i mass media (siano fatti di carta, di onde o di bit) è l’oblio.