Piano segreto nel cassetto
Padoan ha in mente una frustata al risparmio per aiutare le imprese
Roma. “Considerando che la produttività dipende dalle performance delle singole imprese, dobbiamo lavorare duramente per aiutare queste imprese a essere più grandi e più forti. Se sei troppo piccolo, non puoi sopravvivere”. Lo ha detto ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, intervenendo a un convegno organizzato alla City di Londra. E alle parole presto potrebbero seguire fatti, legislativi s’intende. Non solo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, probabilmente già la prossima settimana, del decreto sulla “Nuova Sabatini” che prevede contributi a favore delle piccole e medie imprese (Pmi) che acquistano beni strumentali. Secondo la ricostruzione del Foglio, infatti, sempre al ministero dell’Economia è in via di perfezionamento un piano per fornire “un significativo incentivo fiscale – recitano le bozze consultate – finalizzato a canalizzare il risparmio delle famiglie verso gli investimenti produttivi in modo stabile e duraturo, facilitando la crescita del sistema imprenditoriale italiano”. L’idea è stata discussa in via preliminare dal gruppo “Finanza per la crescita”, un coordinamento che fu avviato nell’aprile 2014 tra ministero dell’Economia, ministero dello Sviluppo economico e Banca d’Italia, e che nel 2015 diede i natali al credito d’imposta per l’innovazione e la ricerca e alla patent box per defiscalizzare marchi e brevetti. Il gruppo di lavoro, che si è riunito anche la scorsa settimana, sta compiendo studi di fattibilità sulla nuova misura, dopo essersi consultato con Assogestioni (l’associazione italiana del Risparmio gestito che rappresenta le Sgr) e altri operatori privati. In sintesi, si tratterebbe di dare il via a un’esenzione d’imposta per “i redditi di capitale e per i redditi diversi di natura finanziaria percepiti dalle persone fisiche al di fuori dell’impresa quando investono nel lungo termine”.
Saranno tre le principali condizioni per non essere colpiti dall’aliquota del 26 per cento vigente sulle cosiddette “rendite finanziarie” (alzata da questo governo che invece ha mantenuto invariata al 12,5 per cento la tassazione su titoli di stato e risparmio postale). Primo: l’oggetto dell’investimento dovrà essere costituito – almeno per i due terzi della somma – da imprese di medie dimensioni (fatturato fino a 300 milioni di euro) già quotate sui mercati regolamentati o comunque da strumenti finanziari quotati (il che taglia fuori tutte le aziende troppo piccole). In secondo luogo, l’investimento dev’essere mantenuto per almeno 5 anni. Terza e ultima condizione, per evitare spiacevoli episodi saliti di recente agli onori delle cronache sul fronte bancario, non più del 10 per cento dell’investimento può essere concentrato sullo stesso soggetto. L’obiettivo di politica economica è duplice: da una parte si tratta di reindirizzare investimenti verso l’economia reale, riattivando quei risparmi che nel nostro paese sono stati spinti soprattutto su titoli di stato e immobili, aggirando anche il solito bancocentrismo. Dall’altra parte, c’è un intento educativo: diversificare le possibilità d’investimento anche per il pubblico retail.
In Banca d’Italia, secondo quanto risulta al Foglio, guardano con favore alla misura di alleggerimento fiscale in via di concepimento. Con gli istituti di credito oggetto di molteplici pressioni, regolatorie o di mercato che siano, diventa ancora più urgente creare una base di investitori istituzionali italiani che abbiano interesse in imprese quotate. Il vicedirettore generale di Palazzo Koch, Fabio Panetta, intervenendo di recente a un seminario organizzato dalla banca d’investimento Equita Sim (che tra l’altro col suo presidente Alessandro Profumo e amministratore delegato Francesco Perilli è uno degli operatori di mercato potenzialmente interessati a sviluppare strumenti idonei per sfruttare la nuova norma), è tornato a lamentare lo “scarso sviluppo degli intermediari non bancari”: “La quota del risparmio gestito sulle attività finanziarie delle famiglie è pari, nel 2014, al 26 per cento in Italia, al 40 per cento nell’Eurozona e negli Stati Uniti, a oltre il 60 nel Regno Unito”. Soprattutto, “il contributo degli investitori istituzionali italiani al finanziamento dell’economia è scarso. Gli investitori in titoli di imprese italiane da parte dei fondi pensione ammontano al 3 per cento del patrimonio complessivo”. In confronto sono molto più presenti i fondi istituzionali stranieri, concentrati nelle aziende italiane medio-grandi. La mancanza di una “base” domestica è anche uno dei motivi della maggiore volatilità di Piazza Affari rispetto agli altri listini europei. Si calcola che oltre alle banche, sono almeno una ventina gli intermediari finanziari del nostro paese interessati a sviluppare fondi ad hoc per il pubblico retail che volesse sfruttare il nuovo regime fiscale.
[**Video_box_2**]Gli esperti dei due ministeri coinvolti hanno studiato casi di scuola stranieri cui ispirarsi. Nel Regno Unito esistono per esempio gli Individual savings accounts (Isa) che consentono ai risparmiatori britannici di investire una certa somma (fino a un tetto che il governo stabilisce ogni anno, adesso è 15 mila sterline) in esenzione d’imposta finché quel capitale non viene toccato. Poi ci sono i Plan d’épargne en actions (Pea) per i residenti francesi, con sgravi fiscali per investimenti fino a 150 mila euro, anche se questi devono essere concentrati attraverso un solo intermediario. Il governo Renzi ritiene sia il momento di rendere anche la nostra finanza un po’ più europea e sviluppista. E al Mef iniziano già a fare i conti su quanto costerebbero esenzioni ipotetiche da 10 mila, 15 o 20 mila euro. Non si tratta di cifre esorbitanti. Il gioco sembra valere la candela.