C'è chi sbraita sulla “diseguaglianza” per sottomettere l'individuo allo stato
Roma. Se chiedete a un cittadino americano quanta ricchezza è nelle mani dell’1 per cento più ricco del suo paese, vi risponderà: il 57 per cento della ricchezza degli Stati Uniti (sondaggio Ipsos-Mori). Se rivolgete la stessa domanda a Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, economisti che con Thomas Piketty hanno elaborato le statistiche alla base del libro-tormentone “Il Capitale nel XXI secolo”, vi diranno che il tanto vituperato 1 per cento detiene il 42 per cento della ricchezza americana. Magia di un mantra del dibattito pubblico post crisi, quello della diseguaglianza che ovunque cresce e che tutto spiega, la cui gittata mediatica ha forse superato le aspettative dei suoi artefici.
Adesso però un recente studio di tre economisti della Fed e di un collega dell’Università della Pennsylvania – Bricker, Henriques, Sabelhaus e Krimmel – dice che nelle mani del solito 1 per cento più fortunato c’è una quota ancora inferiore della ricchezza americana: non il 57 per cento, non il 42 per cento, ma il 33 per cento. La ricerca, elaborata per un pensatoio americano mainstream e liberal come la Brookings Institution, sostiene anche che la concentrazione di ricchezza non è aumentata così rapidamente come sostengono i pikettisti in servizio permanente effettivo, ovvero di 13 punti percentuali tra il 1992 e il 2013, ma di 6 punti. Per non dire della quota di reddito dello stesso 1 per cento, addirittura calata negli anni peggiori della crisi per poi tornare a crescere (sempre meno delle stime precedenti). La questione sollevata dagli economisti della Brookings Institution non è di lana caprina, con tutto il rispetto per gli statistici che hanno passato al setaccio e corretto i fitti database di Piketty & co. Gli autori dello studio appena presentato, semplicemente, tengono conto, quando misurano redditi e ricchezze, di forme non monetarie di sostentamento, come l’assicurazione sanitaria pagata dall’azienda, i programmi di welfare come Medicare, Medicaid e food stamps.
Si svela così il paradosso di una certa retorica egualitaria: si denuncia una diseguaglianza crescente che può essere corretta solo attraverso un maggiore intervento pubblico, omettendo di misurare i benefici redistributivi delle politiche pubbliche già in essere. Si chiede “più stato” domani, facendo finta che ce ne sia meno oggi. E questo con il risultato di radicare ancora di più nell’opinione pubblica la convinzione – giudicata fallace già da Luigi Sturzo (vedi Flavio Felice a pagina due) – che solo affidando “allo Stato attività a scopo produttivo, connesse a un vincolismo che soffoca la libertà dell’iniziativa privata”, si possa “riparare a sperequazioni”. Ecco dunque un altro aspetto deresponsabilizzante e alienante – per citare il filosofo politico Harry G. Frankfurt – dell’eguaglianza economica assurta a ideale morale.
E’ contro tale retorica che ha parlato ieri, in un’insolita intervista al Guardian, il banchiere centrale Mario Draghi. Che invece di commentare l’ultimo colpo di bazooka monetario, ha osservato che sono le giovani generazioni (16-34 anni) quelle più colpite dalla crisi in termini di reddito (altro che pensionati, cari telegiornali) e di opportunità. Ha aggiunto Draghi: “I consumi in una società sono determinati in parte dalla distribuzione di ricchezza, ma ancora più importante è che le giovani generazioni possano accedere al mercato del lavoro in maniera equa. In molti paesi tale mercato è invece costruito in maniera tale da proteggere gli insider”. E ancora: “Attrezzare gli individui per affrontare il mondo di domani è il modo migliore per aumentare i redditi e ridurre la diseguaglianza”. Tocca anche a noi, non al solito stato.