Assuefatti alla crescita “zero virgola”, che durerà finché non riscopriremo la cultura del rischio

Massimiliano Valerii
L’inflazione segna un meno 0,3 per cento a febbraio. Il pil cresce solo dello 0,1 per cento nel primo trimestre. E gli italiani sono l’azienda più liquida d’Italia. Non rischiano più ma i conti correnti sono pieni di soldi. Negli anni della crisi sono successe due cose importanti. Cosa è cambiato veramente?

La doccia fredda è arrivata il 15 marzo dall’Istat: l’inflazione a febbraio segna un meno 0,3 per cento su base annua, siamo in deflazione. Segue l’altra cattiva notizia di pochi giorni prima: la stima di un aumento del Pil nel primo trimestre dell’anno solo dello 0,1 per cento. E c’era stata pure la lettera di richiamo della Commissione europea a causa del rischio di una deviazione significativa dal percorso di aggiustamento dei conti pubblici verso l’obiettivo di medio termine del pareggio strutturale di bilancio. “L’Italia deve ridurre il debito”, ha precisato perentorio il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis. Nel mezzo, c’è stato il potenziamento del programma di quantitative easing della Bce di Mario Draghi. Ma ormai siamo assuefatti a una crescita da “zero virgola”. Hai voglia a dire la recessione è finita. Tecnicamente è così, dopo anni di segni meno. Ma la delusione da attese tradite è cocente. Il rischio vero da cui guardarsi, a questo punto, è la deflazione delle aspettative.
Tutti presi a misurare le variazioni al rialzo degli indicatori economici, per poi smorzare la disillusione per aver constatato che il campo di oscillazione stentava nell’ordine di qualche decimale di punto percentuale, i commentatori hanno dato poca attenzione a due cose importanti che sono successe negli anni della crisi.

 



 

La prima è che, mentre gran parte dell’informazione mainstream batteva sul tasto della retorica pauperista del “non arriviamo alla fine del mese”, gli italiani diventavano l’azienda più liquida d’Italia. Il portafoglio delle attività finanziarie delle famiglie (quindi esclusa la ricchezza patrimoniale concentrata negli immobili di proprietà) si è gonfiato fino a un ammontare complessivo di 4.000 miliardi di euro (cioè due volte e mezza il valore del Pil). Giù le quote di azioni e obbligazioni, boom di contante e depositi bancari: valevano un quarto della torta nel 2007, sono diventati oggi il 31 per cento del totale.

 

Certo, siamo stati tutti scottati dalla crisi. Ci siamo detti: meglio tenere i soldi in tasca o fermi sui conti correnti, pronti all’uso per ogni evenienza. E intanto i consumi flettevano del 7,5 per cento nel periodo 2007-2014 e i volumi del mercato immobiliare si dimezzavano (siamo passati da 800mila a 400mila compravendite di abitazioni all’anno). In sintesi, la bolla del risparmio e del cash cautelativo, insieme alla bassa propensione all’assunzione individuale  del rischio, rappresentano per noi la legacy della crisi, il suo lascito.

 

Per evitare la sclerotizzazione su questo atteggiamento difensivo della gran parte degli italiani, si è provato a stimolare la domanda interna attraverso misure come il bonus Irpef di 80 euro o il taglio della Tasi. Risultato, conti alla mano: i soldi ci sono ma non girano, i consumi non decollano, la produzione industriale non ritrova slancio, la ripresa occupazionale è ancora debole, l’inflazione resta inchiodata intorno allo zero (nonostante il fiume di liquidità iniettato nel sistema dalla Bce) e gli investimenti si fanno col contagocce. Per la verità, siamo ai minimi dal dopoguerra in termini di incidenza degli investimenti sul Pil: nel 2015 in Italia hanno pesato per il 16,5 per cento del prodotto interno lordo, rispetto al 17,3 per cento del Regno Unito, il 20 per cento della Germania, il 21,2 per cento della Francia.

 

Quello che più conta è che c’è stato un vero cambiamento di paradigma con cui oggi fare i conti, che va al di là dei dati macroeconomici, senza sconfinare però in teorie di parapsicologia collettiva (manca la fiducia! manca la fiducia!). Il punto cruciale è che il grande assente sulla scena ormai da parecchio tempo è il rischio. Rischio calcolato, beninteso. Il problema è che gli italiani non tornano a una confidente assunzione del rischio individuale, consapevoli che l’azzardo lascerebbe impresse cicatrici profonde sulle proprie solitarie biografie personali. Solitarie? Perché? Il fatto è che nella percezione collettiva è svaporata la figura dello Stato come garante di ultima istanza delle “avventure” individuali ‒ quel ruolo che nei decenni passati, trascorsi nel segno dell’accrescimento della società affluente, l’autorità statuale aveva saputo esercitare tramite gli strumenti redistributivi di welfare finanziati con il debito pubblico, fomentando la grande saga della “cetomedizzazione”, che si basava proprio sull’assunzione individuale del rischio (mi compro la casa, apro un negozio, metto su un’impresa, e così via).

 

Quando lo Stato debitore è quotato sui mercati finanziari internazionali e i conti pubblici sono sottoposti al giudizio delle agenzie di rating, c’è la rottura di paradigma. Naturalmente, questo è un processo di lunga deriva. C’è stato però un preciso momento in cui tutti hanno definitivamente aperto gli occhi, costretti a farlo dall’esperienza traumatica della crisi del debito sovrano (ricordate lo spread rispetto ai Bund tedeschi schizzato alle stelle? E il rischio di default per la Grecia?). In quel momento abbiamo perso l’innocenza. Da allora i cittadini sottilmente disconoscono ai politici nazionali la piena autorità deliberativa: sanno che le loro azioni verranno sottoposte a un giudizio finale, dei mercati o di Bruxelles (vedasi le estenuanti trattative sulle clausole di flessibilità sui conti pubblici).

 

La seconda cosa che è successa durante gli anni della crisi è l’affermazione del nuovo ciclo della economia della disintermediazione digitale, che sposta la creazione di valore da filiere produttive e occupazionali tradizionali in nuovi ambiti. In questi anni gli italiani hanno risparmiato praticamente su tutto, tenendo stretti i cordoni della borsa all’insegna di una riscoperta sobrietà (adieu ai fasti del consumismo, solo un lontano ricordo). Ma non hanno lesinato sulle tecnologie digitali. Che anzi sono state premiate dal processo selettivo dei consumi innescato dalla crisi e hanno assunto una connotazione anticiclica: hanno conosciuto una fase espansiva in controtendenza, come dimostra il vero e proprio boom di smartphone e connessioni mobili. Tra il 2007 (l’anno prima dell’inizio della crisi) e il 2014, la spesa per telefoni e traffico dati è più che raddoppiata (più 146 per cento: parliamo di 27 miliardi di euro nell’ultimo anno).

 

Insomma, gli italiani hanno evitato di spendere su tutto, ma non sui media digitali connessi in rete. Perché? Perché grazie ad essi hanno aumentato il loro potere individuale di disintermediazione, che ha significato un risparmio netto finale nel loro bilancio personale e familiare. Grazie alle piattaforme digitali, scompare la mediazione tra il fornitore dei servizi e l’utente finale, visto che non è più necessario recarsi all’agenzia turistica per prenotare un viaggio oppure in un negozio di calzature per comprare un paio di scarpe. Usare internet per informarsi, per acquistare beni e servizi, per prenotare viaggi e vacanze, per guardare film o seguire partite di calcio, per svolgere operazioni bancarie o entrare in contatto con le amministrazioni pubbliche, ha significato spendere meno soldi, o anche solo sprecare meno tempo: in ogni caso, guadagnare qualcosa.

 

Nel frattempo, i big player della rete si attrezzavano per presidiare in maniera sempre più efficace la nuova frontiera, cioè i tre perni fondamentali del commercio: la fase dell’acquisto (di ogni cosa), la gestione di strumenti di pagamento tramite smartphone (alternativi ai tradizionali circuiti bancari), la logistica (robot nei magazzini, droni nei cieli). Ai vertici mondiali per fatturato e capitalizzazione di Borsa – le prime cinque aziende Ict messe insieme valgono un paio di migliaia di miliardi di dollari, pari al Pil di una media potenza europea come l’Italia –, rappresentano il nuovo volto del capitalismo del XXI secolo. La continuità personalizzata tra online advertising e e-commerce è il segreto del successo. Internet sembra così proiettata a diventare una nuova, gigantesca piattaforma commerciale taylor-made: un grande villaggio digitale, con le sue piazze, i cinema e la city hall, gli uffici pubblici e le banche, i centri commerciali.

 

Che cosa hanno in comune le due novità che ci ritroviamo dopo i lunghi anni della crisi? Risposta: il trionfo dell’individualismo. Orfani di uno Stato nazionale solido, sostituito da una governance sovranazionale che non ha retto alla prova della depressione economica e della gestione degli esodi migratori, l’individuo si ritrova solo. E anche i processi di disintermediazione digitale, basati su un ricentraggio soggettivo e sulla disarticolazione delle filiere del lavoro tradizionali, vanno in questa direzione, nell’inveramento dello slogan planetario della piattaforma video più popolare sul web: broadcast yourself!

 

Nessuno rimpiange uno Stato che accumula debito pubblico (i conti, prima o poi, bisogna pagarli). Ma ad oggi non abbiamo ancora trovato un valido rimpiazzo per quel ruolo che spingeva ad assumersi i rischi. Per riattivare i circuiti dell’economia reale la politica monetaria non basta, bisogna tornare a investire, cioè a rischiare. Di qui l’impasse in questa fase di transizione epocale. Che durerà fino a quando non avremo riscoperto una nuova cultura del rischio.

 

Massimiliano Valerii è Direttore generale del Censis

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