Accelera la rivoluzione del credito italiano. Le scelte di Draghi e Renzi
Roma. “I sistemi bancari – sostengono gli economisti Charles Calomiris e Stephen Haber – sono l’alleanza implicita tra governi e attori privati. Quell’alleanza opera secondo le logiche della politica, non dell’efficienza”. Questo paradigma che ha dominato anche l’industria bancaria italiana per oltre un secolo si sta indebolendo grazie alle spinte della Banca centrale europea dalle quali sono discesi gli interventi del governo Renzi nell’ultimo anno. Una rivoluzione, dopo le aggregazioni del 2007 con la nascita di Intesa Sanpaolo e Unicredit, per incoraggiare le fusioni tra gli istituti di medie e di piccole dimensioni, ridurre il numero abnorme di sportelli e smuovere la cronicamente scarsa capacità del sistema di fare profitti. Nel novembre 2014, la creazione del Meccanismo unico di supervisione (Ssm) in seno alla Bce, che esercita vigilanza diretta su 14 banche italiane e può avocare a sé i “casi critici”, insieme al cambio di approccio in fatto di salvataggi bancari – dai bail-out di stato, al bail-in in capo ai privati – hanno innescato il cambiamento. All’inizio del 2015 le prime dieci banche popolari sono state forzate a trasformarsi in società per azioni per decreto abbandonando un sistema di governo localistico e paralizzante per poi provare a fondersi: il primo test è il matrimonio annunciato ieri tra Banco popolare e Banca popolare di Milano.
Finalmente si palesa l’inizio del processo di fusioni e aggregazioni bancarie in Italia. Una nuova entità nascerà a novembre – il nome non è noto – dalla fusione tra Banco popolare, con sede a Verona, e la Banca popolare di Milano (Bpm), che nel 2014 superò in extremis gli stress test, per formare il terzo istituto sia in termini di asset a bilancio (170 miliardi), 1 miliardo in più del Monte dei Paschi di Siena, sia di capitalizzazione di Borsa, dietro Intesa Sanpaolo e Unicredit. Gli azionisti del Banco avranno il 54 per cento della proprietà, il 46 a Bpm. Gli investitori istituzionali esteri avranno la metà del capitale con il fondo d’investimento americano BlackRock e suoi addentellati in posizione prominente (col 7,2 per cento delle quote nel complesso), mentre la fondazione Cassa di risparmio di Lucca, azionista del Banco, è ridotta ai minimi termini. Il mercato non è sembrato impressionato dalla fusione che ha richiesto complesse trattative riservate sfociate in richieste di rafforzamenti patrimoniali da parte delle autorità europee, a fronte delle resistenze manifeste del management. Le azioni del Banco, quotata in Borsa, sono arrivate a cedere il 4,5 per cento: in primis per le perplessità circa l’aumento di capitale da 1 miliardo di euro chiesto come condizionalità alla fusione da parte dell’organo di vigilanza bancaria della Bce, presieduto da Danièle Nouy, ex Banque de France, e poi per le sinergie proposte da 365 milioni, in larga parte mediante tagli ai costi amministrativi (il management esclude licenziamenti). La sensazione degli analisti è che, vista la reazione della Borsa unita alla percezione di una “comunicazione” tra Banca d’Italia-governo e Bce da migliorare al pari della moral suasion italiana, ci sia sostanziale sfiducia nella “riformabilità” del sistema. Che ne sarà ad esempio di Ubi o del Monte dei Paschi?
Tuttavia i cambiamenti introdotti da Renzi, che intende “sistemare definitivamente la questione bancaria” nel 2016, hanno prodotto significativi rivolgimenti. Anche in prospettiva della riforma delle popolari, auspicata da vent’anni, le popolari avevano ceduto l’Istituto centrale delle banche popolari ai fondi Advent International, Bain Capital e Clessidra, liberandosi anche dell’asset Carta sì, circuito di pagamenti elettronici rilevante, per fare cassa e migliorare i coefficienti patrimoniali. L’adozione della direttiva europea del bail-in, arrivata in ritardo di un anno a novembre 2015, ha permesso la risoluzione di quattro banche regionali critiche (Banca Marche, Banca Etruria, Cassa di risparmio di Ferrara e Cassa di risparmio di Chieti); soccorso in parte pagato dalle altre banche. All’azione sono seguite sanzioni pecuniarie verso alcuni amministratori, con relative indagini giudiziarie. Un passaggio critico per il governo renziano insidiato dalle richieste di risarcimento da parte degli investitori privati che avevano speso i loro risparmi in titoli rischiosi, azzerati con il processo di bail-in parziale (sono stati colpiti solo i creditori subordinati, gli ordinari sono stati risparmiati). Difficile in particolare per il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, figlia di Pier Luigi già consigliere, membro del comitato esecutivo e poi vicepresidente di Banca Etruria fino al commissariamento da parte della Banca d’Italia, in concerto con il Tesoro, nel febbraio 2015.
Il Parlamento sta discutendo in queste settimane il secondo decreto sulle banche che intende sia creare una holding per unire circa 350 banche di credito cooperativo, piccole e localistiche, sia procedere alla costruzione di un sistema, impropriamente chiamato “bad bank”, per smaltire con parziale garanzia pubblica 200 miliardi di “sofferenze” (pari al 12,5 per cento circa del pil). Sganciarsi dal “bancocentrismo” e cambiare il modello di business – recente suggerimento di Nouy della Bce – sarà più complesso. Il Tesoro sta studiando incentivi per spingere le piccole e medie imprese a reperire capitali sul mercato visto che il credito bancario è costoso. Quest’ultima sarà la rivoluzione più dura.