Sulle trivelle siamo alle cozze

Luciano Capone
Il referendum del 17 aprile è diventato un plebiscito sui molluschi. A Slow Food dispiacendo

Milano. Siamo alle cozze. Il referendum del 17 aprile contro le trivelle, ma che in realtà non è sulle trivelle visto che il quesito riguarda la durata delle concessioni dei giacimenti esistenti (quindi in ogni caso non ci saranno nuove trivellazioni), si è trasformato in un plebiscito sulle cozze. Alla ricerca di battaglie più ampie, che non hanno nulla a che fare con la consultazione referendaria, dalla difesa dell’ambiente alla spallata al governo, passando per la politica energetica e la tutela dei mari, il fronte referendario ha trovato un simbolo nel mollusco. I “cozzari neri” del fronte referendario sono Luigi de Magistris e Michele Emiliano: “A Napoli cozze e vongole, No Trivelle”, ha dichiarato il sindaco di Napoli. “Grazie Luigi. Ora e sempre Resistenza”, gli ha risposto il presidente della Puglia. Sul Foglio abbiamo evidenziato come in realtà a Napoli, dove non ci siano trivelle né ce ne saranno, i mari e le cozze sono più inquinati dagli scarichi fognari rispetto all’Emilia Romagna, che è la regione con il più alto numero di piattaforme e con la maggior produzione di cozze. E una grande quota cresce spontaneamente sulle piattaforme offshore che i referendari vogliono smantellare proprio perché accusate di inquinare i mari e la fauna ittica. Sul tema Greenpeace, schierata a favore del referendum, ha lanciato un comunicato dai  toni allarmistici in cui sostiene che le cozze di Marina di Ravenna raccolte dalle piattaforme Eni potrebbero essere contaminate da sostanze cancerogene. E quindi sarebbero pericolosissime per la salute. I pescatori romagnoli, che raccolgono ogni anno circa 10 mila quintali di cozze, hanno ribattuto che le loro cozze sono sottoposte a rigidi controlli sanitari, “non è mai stato riscontrato il superamento dei valori stabiliti per il consumo umano”. E viste le accuse infondate si dicono pronti a portare Greenpeace in tribunale per difendere un prodotto di qualità: “Le cozze di Ravenna sono un prodotto pregiato, vengono vendute a un prezzo superiore del 30 per cento e si trovano nei migliori ristoranti da Roma a Napoli”, ha detto la cooperativa di mitilicoltori romagnola.

 

Ma dopo quello sanitario, su cui l’allarme sembra subito rientrato, nella guerra delle cozze si è aperto il fronte gastronomico. Perché il comitato per l’astensione (dal voto nel referendum, non dal consumo di cozze) “Ottimisti e razionali” ha ricordato in un video che “le cozze che crescono sulle gambe delle piattaforme dell’Adriatico sono secondo Slow Food tra le più pregiate d’Italia”. La dichiarazione non è andata giù all’associazione fondata da Carlo Petrini, schierata per il “sì” al referendum, che in un comunicato ha smentito la dichiarazione: “E’ un’affermazione che non abbiamo mai né fatto né sostenuto. Si faccia chiarezza senza bugie e senza inserire false dichiarazioni”. Ma quelle parole sono vere e visibili sul sito di Slow Food Ravenna. E non potrebbe essere altrimenti perché Slow Food è proprio tra gli organizzatori della “Festa della Cozza di Marina di Ravenna”, in cui sono previste anche escursioni in barca alle piattaforme dove le cozze nascono e crescono spontaneamente: “La cozza di Marina di Ravenna ha delle caratteristiche di grande pregio e qualità rispetto ad altre cozze sul mercato, è un prodotto di eccellenza, quindi con una dignità diversa”, diceva Slow Food (che però ora nega). Ma ormai è chiaro che il referendum è sulle cozze più che sulle trivelle, quindi il vero quesito su cui gli italiani dovrebbero essere chiamati a rispondere è: impepata o gratinate?

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali