Il risiko Telecom, tra la (fu) lucidità di un Rovati e l'interesse nazionale
Per capire il caso Telecom Italia nell’ambito del capitalismo italiano, partiamo dalla storia. Non la storia di un passato che non può tornare: il ritorno a Tim non ha riportato al timone Vito Gamberale e le sue straordinarie mosse del triennio 1995-1997, anche perché lo scenario con cui si confronterà il nuovo management è radicalmente cambiato.
Eppure, almeno la storia recente non andrebbe dimenticata. Colpisce che, nell’attuale discussione sui destini della compagnia telefonica, non sia stato quasi mai evocato il compianto Angelo Rovati. Rovati aveva un disegno per l’impresa, che aveva esposto, oltre che nel famigerato “piano” del 2006, all’opinione pubblica (intervista di Paolo Madron sul Sole 24 Ore, 4 febbraio 2009). Il progetto di Rovati si basava, esattamente come i dettagliati ragionamenti di Alessandro Penati su Repubblica del 24 marzo, sui conti dell’azienda di dieci anni fa. L’approdo del disegno di Rovati, che aveva il pregio (o il difetto?) di parlare con chiarezza e di appassionarsi alle cose, era “una formidabile media company con la famiglia Berlusconi importante socio, ma di minoranza”. Già dal 2006 Rovati immaginava, dopo lo scorporo della rete, una fusione tra Telecom e Mediaset con l’obiettivo di aumentare la capacità di investimento e la presenza internazionale dell’Italia. Dopo la rottamazione dello scorporo della rete e di numerosi protagonisti e comprimari, questo progetto potrebbe essere realizzato direttamente da Vincent Bolloré, chiaramente alle sue condizioni e secondo i suoi interessi. Possiamo interrogarci all’infinito sulla familiarità di Berlusconi con Bolloré: nel suo libro con Massimo Mucchetti, Cesare Geronzi racconta che Bolloré gli fu mandato proprio dall’allora presidente del Consiglio, nel marzo 2003. E’ veramente questo il punto centrale? A carte scoperte, la lezione importante a mio avviso è un’altra: nelle grandi partite industriali del nostro paese, ci manca la franchezza di un Angelo Rovati.
Fu l’economista Marcello De Cecco a coniare per la Francia la definizione di azionista estero di maggioranza dell’Italia post-unitaria. Oggi, proprio mentre la crepe al Grand Marnier è diventata crepe al Campari, dobbiamo piangere la morte del capitalismo italiano? Con queste formule, corriamo il rischio di occuparci solo delle figurine di un “sistema” che non esiste più, senza considerare la realtà. La realtà che dobbiamo affrontare è la piramide del capitalismo italiano che ha esposto Giuseppe Berta (da ultimo in una lezione all’Arel del 18 marzo). Nella piramide di Berta, abbiamo in alto un vertice ormai spuntato, il nucleo delle grandi imprese storiche quasi dissolto (tanto da generare la nostalgia dell’Iri); in basso, un insieme vastissimo di piccolissime e piccole imprese. La sezione più interessante della piramide, tuttavia, è quella mediana, dove abbiamo un corpo di imprese medie e intermedie, secondo l’ampia definizione di Berta, in cui trovano posto alcune aziende che definiremmo grandi ma che non vengono dal nocciolo e salotto della storica grande impresa italiana. Questo segmento, che popola indagini come il Rapporto Annuale “Economia e finanza dei distretti industriali” di Intesa Sanpaolo, è un punto di vitalità della nostra economia. Si è ampliato, ha resistito alla crisi, ha fatto innovazione. Si è aperto ai mercati internazionali, ha saputo realizzare acquisizioni. Certo, a volte è ancora indietro nei processi organizzativi e i suoi “campioni” al Sud sono pochissimi, ma è chiaro che il futuro del capitalismo italiano risiede in quella categoria di imprese e nell’ossessione della sua crescita dimensionale.
Occorre premiare realmente quel segmento, rafforzando il suo accesso al mercato dei capitali e, più in generale, la sua ambizione. Questo potrebbe portare a un nuovo “capitalismo di sistema”, con nuovi azionisti di maggioranza industriali italiani per il capitalismo italiano, a fianco dei grandi istituzionali stranieri? Si vedrà. I Rocca, i Rotelli, i Garavoglia, i Malacalza, i Vacchi e altri fanno e faranno le loro scelte, non necessariamente seguendo vecchi schemi, magari lavorando nel sostanziale anonimato. Del resto, chi conosce i fratelli Franco e Marco Stevanato? O un manager come Andrea Abbati Marescotti che, passato dalla scuola di Marchionne alla Brembo, ha ottenuto risultati stellari? Nella vorticosa ascesa di Bolloré in Italia, troviamo un punto centrale: non gliene è mai importato granché di influire sul Corriere della Sera. Per troppo tempo abbiamo ritenuto che il tema centrale del capitalismo italiano fosse questo invece, ad esempio, della certezza del diritto e della promozione della cultura scientifica. Nella realtà che Bolloré ci invita ad affrontare, la crescita dimensionale è il nostro interesse nazionale.