La contesa degli industriali
Renzi alle prese con la Confindustria delle strane alleanze variabili
Roma. Il gioco di specchi della campagna elettorale di Confindustria e gli abbondanti depistaggi mediatici dalle rispettive centrali elettorali, non hanno consentito di inquadrare la situazione con chiarezza nemmeno a molti osservatori esterni e dell’establishment. Una lettura lineare vedrebbe la semplice riproposizione dello scontro politico-ideologico della passata contesa tra Giorgio Squinzi e Alberto Bombassei. La maggioranza che elesse Squinzi collima con quella che emerge in favore di Boccia, conoscitore della macchina confindustriale, gradito alle imprese di stato (è appoggiato da Emma Marcegaglia, presidente di Eni, e imprenditrice siderurgica in lizza per rilevare la disastrata Ilva di Taranto), e in definitiva riconducibile alla corrente dei “progressisti”, ovvero quegli imprenditori che hanno sempre fatto accordi con i sindacati e che non hanno affrontato scioperi rilevanti. Nella prospettiva renziana una Confindustria “bocciana”, come sembra avanzare nei sondaggi interni all’associazione, sarebbe più congeniale al progetto di Partito della nazione, dove ogni cosa è allineata, che corre parallelo a un sindacato padronale meno antagonista rispetto al governo.
A Bombassei, capo della Brembo che lo appoggia, corrisponderebbe Vacchi, sempre per via di sponsor in larga misura coincidenti, con una Confindustria che andrebbe a incalzare l’esecutivo che per questo e per ragioni politiche resta guardingo: Vacchi è manager di un’impresa internazionalizzata, sostenuto dall’ala più anti-sindacale dell’associazione riconducibile a Federmeccanica, che non a caso all’inizio della campagna aveva fatto pesare a Vacchi di avere fatto accordi con la Fiom nella filiera di aziende asservite alla sua Ima, società di packaging, anziché sderenare il sindacato del “politico” Maurizio Landini. Il paradosso del bolognese Vacchi deriva in questo senso dall’appartenenza territoriale: l’Emilia Romagna dalla tradizione manifatturiera e operaia dove la Fiom ha la sua presa su lavoratori, com’è ovvio, e anche su alcuni imprenditori. Vacchi, dicono gli avversari, sarebbe vicino al vecchio Pd bersanian-prodiano di cui però non sembra sposare l’ideologia giuslavoristica giacché ha applicato per sé contratti di filiera innovativi rispetto al contratto nazionale sacro a Susanna Camusso. I detrattori ricordano pure la mancata opposizione di Unindustria Bologna, di cui Vacchi è presidente, da organizzazione osservatrice e non firmataria, al protocollo d’intesa in materia di appalti per forniture e servizi tra comune di Bologna e Cgil, Cisl, Uil più altre associazioni di categoria il 6 luglio scorso. Accordo che concesse ai camussiani spazio per propagandare la “neutralizzazione del Jobs Act” in quanto si tutelavano maggiormente i dipendenti a scapito della flessibilità. Fu poi Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, a smorzare le invettive sindacali (“è una pantomima quella di chi dipinge il Jobs Act come licenziamenti liberi”).
Vacchi è visto come uomo vicino al centrosinistra prodiano-bersaniano-lettiano ma politicamente è sostenuto da uomini non gauchisti come Luca di Montezemolo (ex Confindustria, vicepresidente di Unicredit, universo Fiat-Ferrari), e Gianfelice Rocca, presidente dei Assolombarda e suo scouter per la corsa alla presidenza, nonché simpatizzante per Stefano Parisi, candidato di centrodestra a sindaco di Milano e ex dg di Confindustria e falco anti-Cgil, fino, con l’appoggio ufficioso arrivato ieri, a Marco Bonometti, capo delle Officine Meccaniche Rezzatesi, ex candidato alla presidenza confindustriale con simpatie politiche di destra. La Confindustria “vacchiana” sarebbe in linea generale più affine al renzismo della prima ora, al “Renzi 1”, quello della rottamazione del sindacato camussiano, ma non della rottamazione di se stessa. Il confuso gioco di alleanze personali e politiche di Vacchi, unito alle sue intenzioni elettorali riformiste, rappresentano un animale strano da maneggiare per il governo renziano.