La Grande sedia di Manzano (Udine), simbolo del Triangolo della Sedia in Friuli Venezia Giulia

Processo al nord-est

Marco Alfieri
Per la prima volta è in corso una sana e robusta autocritica nel “territorio” per eccellenza. Imprenditori e banchieri inclusi. Uno studio dell’economista Micelli

"Xe finio tuto…" mi dice un amico imprenditore trevigiano, rispolverando antichi fantasmi e vecchie subalternità.
Probabilmente esagera ma il Nordest come lo abbiamo conosciuto negli ultimi 25 anni è morto e sepolto. Ancora (abbastanza) ricco ma ai margini del grande gioco, policentrico per storia e vocazione quindi incapace di contare nel paese in proporzione al peso economico e culturale. Solo che sul banco degli imputati stavolta non c’è il suo modello produttivo, la subfornitura di beni tradizionali in difficoltà sui mercati globali, bensì, cosa più importante, la sua classe dirigente.

 

A certificarlo, buon ultimo, il Rapporto Nordest 2015 prodotto dall’omonima fondazione, espressione della Confindustria locale. La relazione del direttore scientifico Stefano Micelli letta mercoledì prende atto di un fallimento sostanziale di tutta la classe dirigente di questi territori, non solo quella politica come per anni ha fatto il Nordest, giocando allo scaricabarile. Un fallimento che Micelli prende di petto, senza giri di parole.

 

L’evento chiave è ovviamente la crisi delle due banche popolari venete al centro del ciclone giudiziario e la cancellazione di dieci miliardi dall’attivo di famiglie e imprese locali. “I gravi problemi della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca e di altre banche locali di minori dimensioni – scrive l’economista – sono i segni più evidenti di una difficoltà che riguarda la capacità del Nordest di sviluppare e consolidare forme di governo del territorio e una classe dirigente di qualità”.

 

Per Micelli è importante sottolineare come i vertici di queste banche abbiano goduto per troppi anni di una stima e di un consenso immeritati, condizionando in modo significativo la vita delle due province di riferimento (Vicenza e Treviso, ndr). “I meccanismi di cooptazione che hanno consentito l’avvicendamento ai vertici dei consigli delle due banche non sono stati mai messi seriamente in discussione mentre il rapido deterioramento delle posizioni finanziarie dei due istituti mostra i limiti di meccanismi di governance e di competenze su cui una comunità aveva contato senza sviluppare uno spirito critico all’altezza delle necessità”. Non solo. “La vendita delle azioni delle due banche a risparmiatori con portafogli fortemente sbilanciati, la sottoscrizione degli aumenti di capitale a prezzi ora inarrivabili – spesso coincidenti con l’apertura di linee di credito ad hoc – sono tutte operazioni che hanno avuto come protagonisti interlocutori legati fra loro da legami consolidati nel tempo”. Risultato: “La crisi delle due banche non potrà non mettere in discussione un patrimonio di relazioni e di fiducia di cui i vertici dei due istituti hanno visibilmente abusato”.

 

La crisi del sistema bancario veneto non giunge isolata – continua nel suo j’accuse Micelli – ma arriva dopo anni di incompiute, fallimenti, divisioni, connivenze e provincialismi “che hanno riguardato, più in generale, il mondo delle istituzioni, della ricerca (la vicenda di Veneto Nanotech è il caso più emblematico), la gestione delle grandi opere (su tutti la vicenda del Mose), l’organizzazione di infrastrutture chiave come l’Alta velocità”, l’incapacità di fare squadra nelle università e nella gestione di autostrade, aeroporti e multiutility.

 

Probabilmente è la prima volta che il Nordest si (auto)processa pubblicamente, cestinando il territorio quale luogo virtuoso per eccellenza. La fabbrichetta. I padroncini. Il piccolo è bello. Il laburismo. Il Leone di San Marco. Le pievi. La serenissima, il mito asburgico. “Il Nordest, dopo aver aspirato ad esserlo, non è riuscito a diventare centro, snodo, punto di riferimento nazionale, interlocutore all’altezza…”. L’occasione sprecata in effetti è grossa e val la pena tornarci sopra.

 

In principio infatti fu il triangolo industriale Milano-Torino-Genova. Per quasi trent’anni teatro e cassa di risonanza del miracolo economico italiano. Vi emigrava chi voleva lavorare in fabbrica, alla catena di montaggio Fiat e Pirelli ma anche negli uffici della Olivetti. Nordovest e grande impresa manifatturiera, sindacati e partiti di massa, paesaggio urbano fordista e le grandi famiglie del capitalismo raccolte nel salotto della Mediobanca di Enrico Cuccia.

 

Con la fine degli anni Settanta e la crisi-ristrutturazione delle grandi imprese private e pubbliche il paese scopre la “Terza Italia” dell’impresa diffusa lungo la dorsale nordestina-emiliano-adriatica. Inizia il ciclo dei distretti industriali cui si deve la gran parte della presenza italiana sui mercati internazionali. Poi, dopo Tangentopoli, i sistemi di sviluppo locale si riattiveranno in chiave localista accompagnando l’esplosione elettorale della Lega Nord di Umberto Bossi. Nasce mediaticamente la Padania a trazione lombardoveneta abbinata all’epopea del nordest dei padroncini.

 

Passa ancora qualche anno e il forzaleghismo diventa talmente egemone da veicolare la lettura di un unico grande nord integrato politicamente a destra e, sul terreno economico, monopolizzato dal modello della piccola impresa, dal protagonismo di banche e fondazioni di territorio e dalla rete delle Camere di Commercio. Il nuovo mantra spacciato in una miriade di convegni e discorsi pubblici è che il bolso modello ex fordista del Nordovest possa rivitalizzarsi solo mutuando il dinamismo economico veneto, alimentato da una nuova classe dirigente diffusa decisa a prendersi il proprio spazio.

 

A partire dal nord e poi in tutta Italia, come una valanga, c’è stato un quindicennio (1995-2011) in cui il territorio è stato glorificato in antitesi al centralismo e a “Roma ladrona”. Tutto ciò che era grande, nazionale, pubblico, politicizzato andava rottamato a vantaggio del piccolo, del privato e dell’autonomismo. Persino a sinistra attecchì questa vulgata, basti ricordare il partito dei sindaci, le riforme Bassanini, la finanza locale e la riforma del Titolo V della Costituzione.

 

Sappiamo com’è andata dopo la crisi di questi anni. Il forzaleghismo è tramontato, il paradigma della subfornitura di beni tradizionali a minor valore aggiunto ha mostrato la corda nella nuova economia globale, la geopolitica è tornata a sovrastare la geografia, le politiche si sono ri-nazionalizzate e i nostri paròn sono stati incapaci di valorizzare le proprie intuizioni in progettualità di sistema. “Piccole e medie imprese, piccoli e medi leader, piccole e medie banche, piccoli e medi sentimenti, piccole e medie passioni. Nel grande Nordest è quasi tutto piccolo e medio e in apparenza non c’è una decisa volontà di crescere…”, scrisse qualche anno fa Giovanni Costa. Definizione perfetta.  

 

Riletto in questa luce, anche lo scandalo delle due banche venete non stupisce più di tanto, anzi. Una onesta disamina dovrebbe farci dire che le pastette e l’enorme distruzione di patrimonio non sono certo peggiori delle miserie collezionate nelle grandi banche del paese anche se oggi fingiamo di dimenticarlo, affossando (solo) le banche espressione di un localismo che non si porta più. Il vizio dei cosiddetti “debitori di riferimento”, gli affidi agli amici degli amici o peggio alle parti correlate senza uno straccio di garanzia, la tentazione di fare salotti e salottini, il poltronismo di conventicole che si riciclano da un posto all’altro (dalla Confindustria alla Camera di Commercio, dalla Fiera alla concessionaria autostradale, dalla fondazione all’aeroporto, dalla ex municipalizzata alla banca di territorio), sono infatti il pendant localista dei signori degli incarichi che si trova(va)no nelle posizioni di vertice delle grandi istituzioni nazionali. Siamo sinceri: il capitalismo clientelare mica lo ha inventato Zonin. Gli Zaleski, gli Zunino, i Ligresti, i De Benedetti (Sorgenia) e le Alitalia li hanno salvati i grandi istituti mica Veneto Banca.

 

Il punto piuttosto è un altro. Nel crollo delle due banche, nel campanilismo ossessivo, nelle piccole baruffe venete si specchia il fallimento di una classe dirigente locale che non ha saputo sfruttare il momento favorevole per spiccare il volo, limitandosi a riprodurre sul territorio gli antichi vizi nazionali. Si specchia il sogno infranto che dai mitici territori si potesse costruire una nuova leadership a vocazione nazionale. Tutto ciò ha un che di paradossale: le domande su cui il Nordest si era imposto a livello mediatico (tasse, burocrazia, infrastrutture, autonomia) sono ancora sul tavolo ma i suoi attori non sembrano avere più la forza e la credibilità di far pesare gli interessi su larga scala.

 

Per questo Micelli ha ragione. C’è un intreccio evidente tra i limiti del modello di capitalismo diffuso tipico di queste terre, la strage delle illusioni dello sviluppo locale post tangentopoli, la fine dell’ideologia del “territorio” come stella cometa della Seconda repubblica e le classi dirigenti che hanno incarnato questa lunga stagione.

 

Cosa resta oggi del Nordest, alla fine di un ciclo che ha fatto del territorio e del locale quotati sul mercato elettorale il suo motore politico? Bene o male il tessuto industriale resta tra i migliori ed è tornato a crescere dopo la lunga crisi. La base industriale è ancora forte e capace di reagire. Ed è da questa base manifatturiera, dalle competenze che maturano nelle nuove scuole tecniche e professionali, dalla vocazione all’export, dai talenti creativi e dalla sapienza artigiana che può ripartire. Ma deve fare in fretta perché nella competizione con altre grandi aree europee perde colpi, non è (più) un’area attrattiva. La necessità di un superamento dei campanili nasce prima di tutto dal cambiamento dello scenario competitivo in cui operano le imprese. Invece “non siamo mai riusciti a metterci in rete concependoci come metropoli padana e rompendo definitivamente lo schema localistico che ci ha uccisi…”.

 

Scrive sempre Micelli: “Nell’anno in cui il Nordest si è ritrovato più vulnerabile, il sistema metropolitano milanese ha dimostrato le sue capacità grazie al successo ottenuto dall’Expo in termini di visitatori e di prestigio internazionale. Mentre il Nordest si scopriva epicentro di una crisi finanziaria nazionale e internazionale, tradito da leader incapaci di affrontare le forze della crisi globale, Milano vedeva rinascere una propria vocazione europea e internazionale. Nel momento in cui il Nordest registrava per la prima volta la sua fragilità economica, Milano ritrovava l’orgoglio di metropoli capace di catalizzare attorno a sé investimenti e talenti.”

 

Questo è l’altro elemento interessante che emerge dal rapporto. Dopo averla snobbata per anni, in Veneto torna il mito di Milano come la New York italiana cui agganciarsi. “Se vogliamo ripartire, dobbiamo prendere atto di questa sconfitta storica; dobbiamo ripartire dalla nostra industria ma cercando di costruire una classe dirigente all’altezza, di far vivere un dialogo con Milano (e con Roma); dobbiamo affrontare definitivamente i grandi nodi di sistema, l’alta velocità in primo luogo, che ci permettano di essere collegati alla capitale della grande metropoli padana. Insomma aspirare ad essere almeno provincia e non condannarci ad essere ciò che siamo diventati, e cioè periferia…”, commenta laconico Venezie Post.

 

Oggi proprio a Vicenza comincia il Festival Città impresa (interverranno quattro ministri, il presidente dell’Inps Tito Boeri, grandi imprenditori e ospiti internazionali) e il processo al Nordest imbastito da Micelli sarà giocoforza il convitato di pietra.  Poi da lunedì se ne andranno tutti e resterà la vera sfida sul tappeto: la classe dirigente nordestina avrà la forza di cambiare e giocare di squadra o siamo alle solite lacrime di coccodrillo? La spaccatura veneta nella corsa alla presidenza nazionale di Confindustria fa cadere le braccia un’altra volta ma il solo fatto di aver avuto il coraggio (tardivo) di mettersi alla berlina fa sperare ci sia qualcuno che voglia evitare di assecondare il declino della ex locomotiva d’Italia.

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