Panama Papers, perché è sbagliato parlare di “paradiso fiscale”
“Nulla fa più notizia di una non notizia. Ora però bisogna stare attenti a non caricare questa vicenda di spirito anti-aziendale”. Raffaello Lupi, professore di Diritto tributario all’università di Roma Tor Vergata, parla con il Foglio del caso Panama Papers. Si tratta dell’enorme mole di documenti trapelati dall’importante studio legale panamense Mossack Fonseca, al centro dell’inchiesta giornalistica partita dalla tedesca Süddeutsche Zeitung e poi condotta dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij). L’enorme mole di dati trafugati contiene informazioni sul lavoro dello studi panamense, quindi sui suoi clienti, le loro società e le attività svolte in vari paradisi fiscali. Tra le persone coinvolte ci sono diversi vip come il calciatore Lionel Messi, il regista Pedro Almodovar, l’attore Jackie Chan (tra gli italiani sono citati il presidente di Alitalia, Luca Cordero di Montezemolo, e l’ex pilota Jarno Trulli), ma la gran parte delle personalità di rilievo appartiene alla categoria dei politici, capi di stato, funzionari, faccendieri e tutto quel sottobosco legato ai rapporti tra politica ed affari.
In questo senso, Lupi dice che non bisogna cadere in un confusionario sensazionalismo che accosta “faccendieri” ed evasori, fenomeni mescolati nello stesso calderone: “C’è una tendenza culturale secondo cui, siccome ci sono dei ricchi criminali, allora tutti i ricchi sono criminali. In questo caso la gran parte dei nomi importanti è di politici e semi-politici o di persone che gravitano nell’attività relazionale e affaristica con la politica. Nei conti riservati c’è il prezzo delle relazioni, il prezzo degli accreditamenti per fare affari in determinati posti”. Insomma, quelli che mettevano al riparo le loro ricchezze a Panama (con i nuovi impegni sulla trasparenza in futuro sarà molto più difficile, almeno in questo paese) non cercavano di pagare meno tasse, cosa che invece cercano di fare le aziende, ma di nascondere del tutto attività illecite o compromettenti: “Gran parte della vicenda non è tributaria – spiega Lupi – e in un certo senso è sbagliato parlare di paradiso fiscale. Quei soldi sono in gran parte provvigioni, tangenti, commissioni, entrature, chiamiamole come vogliamo, che venivano nascoste perché si temevano polemiche o ritorsioni politiche. Visti molti paesi di provenienza, quelle persone non temono il loro fisco, ma i loro nemici politici. Temono che le loro attività possano essere strumentalizzate e di diventare politicamente deboli perché attaccabili da avversari che probabilmente farebbero la stessa cosa”.
In effetti, a parte il primo ministro islandese e il padre del premier britannico David Cameron (che però di professione faceva il banchiere, quindi probabilmente la cosa è legata alla sua attività professionale), tutti i politici coinvolti provengono da paesi in via di sviluppo, con un elevato tasso di corruzione e instabilità politica: Georgia, Iraq, Qatar, Arabia Saudita, Cina, Ucraina, Sudan, Emirati arabi, Russia. Per fare affari in questi paesi c’è sempre bisogno di qualcuno che ti accredita, che faccia da intermediario con i governanti. “Questo non è un riflesso del capitalismo – dice Lupi - ma è una manifestazione di potere tradizionale, in cui la politica chiede un determinato prezzo. E’ un ibrido delle società precapitalistiche con l’economia finanziaria”. Solo che questo prezzo riscosso dalla classe politica o dal governo è spesso pericoloso, soprattutto se non sei il sovrano assoluto di un paese: “In paesi come la Cina la corruzione è notoriamente diffusa, ma ogni tanto si fa una campagna anti-corruzione contro quelli meno potenti o caduti in disgrazia. Nei paesi in via di sviluppo il torto e la ragione si misurano in una certa misura col potere politico”.
E il tema patrimoniale è usato spesso in queste battaglie, come insegna la vicenda dell’oppositore russo Mikhail Khodorkovsky, eliminato dal governo per reati finanziari. Questo vuol dire che il tema dell’evasione fiscale, in questo caso, non è così rilevante. Soprattutto perché, nei paesi dei leader politici coinvolti, la pressione fiscale è di per sé bassissima e se anche fosse stata zero, i soldi sarebbero stati comunque occultati in posti con tasse più elevate: “Il loro problema non è fiscale – dice Lupi – ma è politico, non farsi accusare dagli avversari. Se si usa l’espressione ‘paradiso fiscale’, va intesa come sinonimo di riservatezza, non rispetto al fisco ma rispetto ai tuoi nemici politici”. Un paradiso politico, insomma.