Eni vs Greenpeace
Roma. Eni ha esposto denuncia presso la procura di Ravenna contro gli attivisti di Greenpeace che il 30 marzo scorso hanno assaltato una sua piattaforma estrattiva di gas nel mare Adriatico al largo dell’Emilia-Romagna. E’ la prima azione legale intrapresa dalla compagnia petrolifera di stato italiana contro la Ong ambientalista famosa dal 1971 per le azioni dimostrative ad effetto.
L’esposto ha le carattestiche di un atto dovuto perché Eni sarebbe potuta essere ritenuta responsabile, in caso di un eventuale incidente, per la sicurezza personale dei suoi dipendenti e per l’integrità degli impianti.
Eni, società controllata dal Tesoro, ha voluto denunciare “la gravità delle condotte” di almeno undici attivisti di Greenpeace che hanno abbordato la piattaforma “Agostino B”, a circa 20 km dalla costa, per poi esporre sulle strutture due enormi striscioni in favore del referendum contro l’estrazione di idrocarburi previsto per il 17 aprile. Gli attivisti “oltre a porre in essere una manifesta e consapevole violazione della normativa vigente hanno seriamente posto in pericolo l’incolumità di tutte le persone presenti e la sicurezza dell’intero sito”, dice l’esposto depositato in procura il 7 aprile, una settimana dopo il fatto, dai legali rappresentanti di Eni dello studio Orlando e Fornari di Milano.
La “Agostino B” è una piattaforma satellite del giacimento “Porto Garibaldi-Agostino”, in produzione dal 1971. Eni è operatore unico e proprietario delle piattaforme e ha tre concessioni minerarie nell’area interessata. Il gas metano ad alta pressione viene convogliato, attraverso condotte sottomarine, dal giacimento alla centrale di raccolta a Ravenna. La piattaforma non è sempre popolata – in quanto struttura “satellite” del giacimento “madre” è previsto un presidio per quindici giorni ogni tre mesi – e non lo era al momento dell’abbordaggio di Greenpeace.
[**Video_box_2**]Il 30 marzo alle 10.30 la capitaneria di porto di Ravenna ha ricevuto la segnalazione della presenza di mezzi attorno alla piattaforma e mezz’ora dopo due dipendenti Eni l’hanno raggiunta con un mezzo navale. L’azione degli attivisti in quel momento era già in corso. Uno dei tre cancelli di accesso era aperto e senza lucchetto di chiusura. Quattro persone erano appese alle funi sospese a sette-otto metri sul livello del mare, tre erano sul main deck (ponte di comando) a diciannove metri d’altezza vicino al modulo di processo e altre due sul cellar deck (l’area di approdo dei natanti) vicino alle teste di pozzo. “Le persone erano dotate di numerose strumentazioni elettroniche (quali radio, cellulari e telecamere non antideflagranti) seppure in aree a rischio di presenza di miscele esplosive”, si legge nell’esposto, nel quale si precisa che nonostante gli avvertimenti da parte dei tecnici Eni del rischio di provocare incidenti, per via di strumenti elettronici a bordo, e del pericolo di cadute, gli attivisti hanno voluto “ultimare l’esposizione” sostenendo di “essere consapevoli della violazione delle normative di settore in corso”. A una motovedetta della capitaneria di porto, già presente sul posto ma senza intervenire, se ne è aggiunta un’altra insieme a un'imbarcazione con personale della Divisione Investigazioni Generali e Operazioni Speciali (Digos) a bordo.
Per i legali di Eni, gli attivisti di Greenpeace hanno violato norme specifiche del settore minerario e derivanti ordinanze della capitaneria di porto di Ravenna per cui è proibito l’avvicinamento alle installazioni (Dpr n. 886/1979) entro un’area di sicurezza che può estendersi fino a una distanza di 500 metri dal sito. Violazioni della normativa e del codice della navigazione possono comportare l’arresto o il pagamento di un’ammenda. Eni non commenta.
“In merito ai rischi connessi all’iniziativa degli attivisti – dicono i legali Eni – si deve osservare come il principale pericolo sulla piattaforma ‘Agostino B’ fosse dovuto alla presenza di eventuali rilasci di gas dagli impianti, con possibilità di presenza nell’atmosfera. […] L’avvicinamento alla piattaforma senza conoscere eventuali criticità o operazioni in corso sulla stessa, e con l’utilizzo non idoneo dell’attracco all’imbarcadero, poteva mettere a rischio l’incolumità degli attivisti, oltre che causare danni alle strutture”, si legge.
Per quanto riguarda le insinuazioni mosse da Greenpeace ("Questa trivella inquina il mare", recitava uno striscione) di una violazione delle normative vigenti e delle autorizzazioni rilasciate dal ministero dell'Ambiente da parte di Eni, la società si riserva di produrre una consulenza tecnica per specificare che "tali affermazioni non corrispondono al vero e sono prive di riscontro oggettivo".
Eni per la prima volta, seppur come atto dovuto, chiede alla giustizia italiana se un’incursione del collettivo Greenpeace possa produrre delle ipotesi di reato. Sempre che la procura ravennate sia disposta ad aprire un’indagine sul caso dimostrandosi diversamente allineata nella contesa in corso tra “Sì Triv” e “No Triv” rispetto ad altri uffici giudiziari italiani più inclini a sposare i pregiudizi anti-industrialisti degli attivisti ambientalisti.