Perché alla produttività (finora) si è preferito il caro sussidio
Che la produttività sia uno dei nodi critici dell’economia italiana è ormai un fatto assodato. Da più fonti arrivano allarmi sul fatto che questo indicatore è ormai fermo da quindici anni, mentre il costo del lavoro è in aumento. Un dato su tutti, quello del settore meccanica: dal 2007 a oggi, la produttività è cresciuta di un misero 0,9 per cento a fronte di un incremento del costo del lavoro pari al 23 per cento. Il tema è tornato sotto i riflettori, statistiche a parte, dopo l’approvazione del decreto che reintroduce la detassazione della retribuzione di produttività. Lo scorso anno i fondi erano stati azzerati, poiché il governo aveva puntato sui 15 miliardi di euro in tre anni per la decontribuzione del contratto a tutele crescenti. Quest’anno vengono invece stanziati 344 milioni di euro, una cifra che, con piccole variazioni, è confermata fino al 2022. Il decreto offre almeno due spunti di riflessione.
Il primo riguarda le cifre stanziate, dalle quali emerge una scelta chiara di visione politico-economica: 15 miliardi per la decontribuzione e 344 milioni per la produttività. Si tratta di una scelta di campo, a maggior ragione se pensiamo che negli ultimi anni in cui la detassazione era attiva (escluso il 2014) i fondi erano di circa 600 milioni. Si è quindi deciso di investire sulla riduzione del costo del lavoro, per incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, convinti che questo avrebbe impresso un cambio di rotta qualitativo nelle nuove attivazioni di rapporti di lavoro. Quanto emerge dai primi dati del nuovo anno, nel quale gli incentivi sono drasticamente ridotti, è però che tale scelta rischia di rivelarsi miope e a breve termine, in quanto sostenuta unicamente dal vantaggio economico e non da una convenienza del tempo indeterminato dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, dei sistemi produttivi, dei modelli di gestione delle risorse umane, eccetera.
Da più fronti infatti – da ultimo in uno studio americano presentato recentemente da economisti di Harvard e Princeton, dal quale emerge che tutta la nuova occupazione americana nell’arco temporale 2005-2015 è data da tipologie di lavoro non standard – è chiaro che le forme di lavoro tradizionali rispondono sempre meno alle esigenze delle imprese. E qui entra in gioco la produttività, l’elemento che sembra essere la chiave di volta del lavoro moderno. Se infatti l’occupazione non è più a tempo indeterminato, ma si muove lungo cicli, progetti e fasi, è fondamentale per le imprese e per i gestori di servizi poter valutare la produttività dei propri lavoratori, e per i lavoratori stessi è sempre più importante essere inseriti in rapporti di collaborazione che premino la loro produttività, dalla quale far dipendere anche una parte della retribuzione. Per questo motivo nei mercati del lavoro contemporanei la diffusione di pratiche che mettono al centro la produttività e la nuova occupazione hanno uno stretto rapporto. Non si tratta quindi di scegliere se investire direttamente sulla qualità dell’occupazione o su politiche per la produttività, ma è probabile che investendo su quest’ultima le imprese e i lavoratori abbiamo più opportunità sul fronte occupazionale.
Il secondo ragionamento riguarda la qualità degli accordi di produttività, poiché non bastano risorse per la detassazione per far sì che questi funzionino veramente. E’ necessario un cambio di rotta profondo nelle relazioni industriali e nella concezione di impresa che sia il fronte datoriale che quello sindacale professano. Troppo spesso questi accordi si rivelano uno strumento di risparmio economico senza effettive ricadute sugli indicatori della produttività e quindi sul miglioramento della competitività delle imprese. In questo senso, le proposte di concedere gli aumenti salariali unicamente a livello aziendale, legandoli proprio alla produttività, possono essere un primo passo, magari brusco, per entrare in una logica di corresponsabilità tra capitale e lavoro che guardi al futuro più che a logiche passate.
Per questo motivo è necessario continuare a diffondere logiche e strumenti incentivanti e allo stesso tempo monitorarne il funzionamento e i risultati. E’ chiaro come questo implichi una cultura d’impresa e di lavoro nuova, che una legge o delle risorse non possono certo instillare nelle pratiche aziendali e sindacali, ma che devono nascere direttamente in modo sussidiario nei rapporti tra le parti.