Zingales: “Voto ‘sì' al referendum, ma dico ‘no' alla retorica anti petrolio”
Roma. Luigi Zingales, ci si mette anche lei? Economista italiano all’Università di Chicago, faro liberale e liberista sul quotidiano Sole 24 Ore, fustigatore dell’allergia italica al mercato. Ha fatto sobbalzare qualche telespettatore questa settimana quando, in una breve dichiarazione durante la trasmissione “Piazza Pulita” su La7, annunciava che domenica prossima voterà “sì” al referendum convocato dai No Triv. Cioè voterà “sì” alla proposta di alcune regioni italiane che, guidate dalla Puglia di Michele Emiliano, intendono bloccare ogni attività delle piattaforme che estraggono gas e petrolio offshore entro le 12 miglia dalla costa a suon di slogan ricercati del tipo “Sì al mare, no al petrolio!”. “Una correzione e una spiegazione sono dovute – risponde un sorridente Zingales in una conversazione con il Foglio – Intanto perché ho già votato ‘sì’, per corrispondenza. E poi perché rifiuto la politicizzazione di tutti i referendum, guardo alla sostanza della domanda referendaria, altrimenti farei come quelle persone che votavano contro il divorzio solo perché era sostenuto dai Radicali”.
Iniziamo dalla lettera del quesito, allora. Sostiene l’economista: “Ho votato ‘sì’ all’abrogazione perché la norma attuale, per come modificata dal governo nel tentativo di vanificare i sei quesiti originari dei referendari, estende all’infinito la durata delle concessioni in essere per le piattaforme offshore”. Vero, la norma può apparire vaga sul punto, ma i controlli periodici su sicurezza e ambiente restano in vigore comunque, e poi alla fine della concessione generalmente – e questo vale in tutto il mondo, considerati gli investimenti che ogni società dispiega per una singola piattaforma – non si assiste a una gara pubblica per assegnare il pozzo a un potenziale migliore acquirente. “Tuttavia – insiste Zingales – allo scadere previsto della concessione il governo di turno avrebbe la possibilità di contrattare condizioni migliori”. Nel senso, prosegue, che “lo stato italiano potrebbe impegnarsi per ottenere qualcosa in più da chi sfrutta le risorse pubbliche. Senza regali”. Chiedere più tasse a chi investe, in questa Italia già tartassata per giudizio unanime, sarà davvero un toccasana? “Questa non è una tassa su chi investe, ma una tassa su chi sfrutta le risorse pubbliche. Più alte sono le tasse di concessione, più possiamo abbassare le altre imposte”. Secondo la dottrina giuridica maggioritaria, però, dopo il via libera della Cassazione ai quesiti, in caso di vittoria del “sì” le concessioni non saranno rinnovate e basta. “Abbiamo abolito il finanziamento pubblico dei partiti ed è risorto in altra forma, non penso che le compagnie petrolifere si fermeranno di fronte a questo”.
Tuttavia al professore, che la settimana scorsa si trovava in Italia per condurre una nota rassegna stampa radiofonica, non sarà sfuggito che il tenore del dibattito pubblico è ben diverso. Molti fautori del “sì” assomigliano a un’armata Brancaleone che inveisce contro ogni forma di industria (equiparata automaticamente a una macchina da inquinamento mortale), contro il petrolio in particolare che è visto come il diavolo al confronto dell’acquasanta costituita dalle “energie verdi”. Un’armata che agita scenari apocalittici e chiude pure un occhio su un comparto con un discreto numero di occupati. “Il problema è che il dibattito, di fatto, non c’è stato – replica Zingales – Scegliendo di non approfondire, i media generalisti hanno lasciato tutto il campo libero alla propaganda dei più estremisti”.
Lei stesso si è fatto sfuggire in televisione un riferimento ai “rischi per il turismo”, ma finora non risultano incidenti di sorta su piattaforme operative da decenni. “Non mi sono lasciato sfuggire. E’ un fattore che va considerato attentamente. Ho letto che taluni hanno messo in relazione la subsidenza di Ravenna con le piattaforme estrattiva. Ho anche letto che dei dipendenti di una società petrolifera sono sotto indagine per aver cambiato le cozze che servono a monitorare la qualità degli scarichi in mare alterando così i dati sull’inquinamento delle acque. Anche qui: istituzioni e media avrebbero avuto dovuto dissipare tutti questi dubbi. Purtroppo in Italia la sfiducia nelle istituzioni e i drammatici casi di inquinamento, come l’Ilva, stanno spingendo sempre più persone a rifugiarsi in una logica anti industrialista. La colpa è di chi ha lasciato fare e in nome del progresso ha violato tutte le norme ambientali. Un’eventuale vittoria del ‘sì’ non deve essere interpretata come una sconfitta della modernità, ma come il desiderio di una fetta crescente della popolazione che il progresso avvenga senza distruggere l’ambiente e senza fare regali a nessuno”.