L'obiettivo del Fondo Atlante è salvare le banche italiane, sì, ma dal mercato
Atlante reggerà sulle sue spalle il mondo? Sulle prime sembrava davvero un gigante la struttura allestita da governo e Banca d’Italia: Cassa depositi e prestiti, fondazioni, grandi banche, assicurazioni, società di gestione del risparmio, tutti mobilitati per risolvere il problema delle banche in difficoltà, e impedire che un generale clima di sfiducia e l’aggressività di fondi stranieri sortissero effetti indesiderati, ossia che dalle ricapitalizzazioni uscissero assetti proprietari imprevisti o perdite eccessive dallo smobilizzo di crediti in sofferenza. Sembrava che, per aggirare il divieto al classico bail-out da parte dello stato, si fosse organizzata una sorta di salvataggio, più o meno spontaneo, da parte del sistema finanziario nazionale.
A dissipare ogni dubbio, alla guida è stato posto un gestore di rinomata esperienza, un liberista educato a Chicago, Alessandro Penati. In ventiquattr’ore tutto si ridimensiona: le spalle di Atlante sono meno potenti, più piccolo il mondo che regge. Per la massima parte (70 per cento dei fondi) servirà a tamponare gli aumenti di capitale in corso, confidando che la sola reputazione dei soci valga a infondere un po’ di fiducia nei disamorati sottoscrittori, e impiegherà quel che resta per acquistare le tranche junior delle cartolarizzazioni previste per i Non performing loan (Npl), sperando che questo consenta di mantenere le tranche senior a prezzi vicini ai valori di carico delle banche. In sostanza, la vecchia guardia bancaria, ispiratrice dell’iniziativa, ci manda a dire tre cose: i prezzi di mercato sono sbagliati, le norme europee sono inadeguate e la concorrenza tra banche è inappropriata. Meglio quindi “fare i prezzi” degli asset a tavolino, riscriversi le regole in casa e infischiarsene dei conflitti d’interessi e delle distorsioni competitive, tornando alle rassicuranti, italianissime “logiche di sistema”.
L’assunto di base di Atlante è infatti che l’Italia delle banche non sia mai entrata in Europa e non sia ancora pronta a farlo. Perché qui da noi il mercato non funziona, né sull’equity bancaria né sui crediti deteriorati. Perché la Direttiva europea sull’unione bancaria e la risoluzione ordinata non è adeguata a prevenire i rischi sistemici tra gli impauriti risparmiatori domestici, e quindi è necessario tornare alle vecchie prassi di bail-out solidaristici pilotati dalla politica e da autorità compiacenti. E infine perché la crisi del settore bancario tradizionale non è strutturale, ma solo congiunturale, e quindi a una banca in difficoltà può bastare un rabbocchino di capitale da concorrenti-amici per ritrovare redditività e quindi giustificare un (moderato) ritorno dell’investimento.
Che a preoccupare fosse l’eccessiva invadenza di Atlante, o al contrario la sua insufficiente adeguatezza, resta però un problema di fondo. Abbiamo ritenuto che il sistema bancario italiano avesse evitato (perché non sapeva parlare inglese, pensava qualcuno) i buchi che la crisi dei subprime aveva scavato nei bilanci delle altre banche europee, e che quindi non avesse bisogno di aiuti pubblici. Abbiamo letto con indulgenza i risultati degli stress test, negando che fossero necessari profondi interventi strutturali su capitale e organizzazione, in attesa del miglioramento della congiuntura. Abbiamo poi ritenuto che la legge che impone alle grandi popolari di trasformarsi fosse sufficiente a creare soggetti che incontrassero il favore dei risparmiatori. Il fallimento di quattro banche minori e l’entrata in vigore delle nuove norme di risoluzione sono state un brusco risveglio: nel nostro sistema bancario il numero delle situazioni problematiche può diventare un rischio sistemico. Lo ritengono le banche con tutti i numeri a posto, che proprio per questo si dichiarano disposte a sottoscrivere quote di Atlante. Il mercato vede nella costituzione del fondo una conferma dei propri timori: in Borsa tutti i titoli bancari hanno visto forti oscillazioni, tra perdite e recuperi.
Il problema di Atlante, tuttavia, non è reggere il mondo bancario sulle sue spalle, ma rimetterlo al suo posto, tenuto nella sua orbita dalle sole forze di mercato. E questo significa identificare e rimuovere le cause che l’hanno portato fuori assetto. La crisi economica ha aumentato le sofferenze bancarie, e da noi la recessione è (stata) più severa e più lunga che altrove. Ma dire che questa è l’unica causa dei 360 miliardi euro di crediti deteriorati lordi che abbiamo accumulato, sarebbe solo un inutile placebo. Altrettanto facile è attribuire tutta la responsabilità a isolate “mele marce”, di cui invece si deve occupare la magistratura: dolo e corruzione esistono dappertutto, ma i sistemi sani sanno dotarsi di robusti anticorpi. Una prima causa è la governance, più precisamente il problema del controllo. Aziende in cui il controllante, o non ha voluto fare un passo indietro, o pur di non diluirsi, ha forzato operazioni che hanno provocato distruzione di valore per la banca. Monte dei Paschi di Siena è il caso più macroscopico: prima di vedere la propria quota ridursi al lumicino, la fondazione si è messa di traverso rispetto a possibili soluzioni di mercato sulla pulizia dei bilanci e sull’apertura del capitale, contribuendo ad aggravare le condizioni in cui versa oggi l’antico istituto senese.
In banche minori, ci sono le vicende di prestiti finalizzati al riacquisto di azioni, a valori stabiliti da un management del tutto autoreferenziale, in totale scollamento con il mercato. Un’altra causa è quella del localismo: il ”rapporto con il territorio” è stato per molto tempo un punto di forza nel ridurre il costo dell’informazione, ma diventa un fardello quando espone la valutazione del rischio a conflitti d’interesse con la politica e con i gruppi d’influenza locali. Lo stesso dicasi per il debito sovrano: il peso dei titoli di stato nazionali nei portafogli bancari, oltre a denotare un rapporto di sudditanza alle istituzioni centrali, rappresenta un’abnorme concentrazione di rischio, ricreando l’incestuoso legame tra debito pubblico e debito privato che l’Unione bancaria europea è invece determinata a recidere.
Il Fondo monetario internazionale ha dato il benvenuto a un’iniziativa che si proponga di ridurre il peso dei Npl (ai quali tuttavia sarà destinato solo il 30 per cento dei fondi), e ciò non sorprende. Ma Atlante assolverà alla sua funzione se contribuirà a correggere questi (ed altri) problemi di fondo del settore bancario italiano. Lo si vedrà da come userà il proprio potere discrezionale per fare interventi, non solo senza alcun riguardo agli interessi delle proprietà e dei manager che hanno causato o non hanno saputo impedire i disastri, ma anzi cercando di promuovere il formarsi di assetti proprietari adeguati e la selezione di manager capaci e indipendenti. Atlante dovrebbe anche ricorrere, selettivamente, di concerto con l’autorità di risoluzione, a meccanismi di ricapitalizzazione che prevedano la conversione dei bond subordinati in azioni, come si era prospettato con precedenti contributi pubblicati su Sole 24 Ore e Financial Times. Se davvero Atlante crede di poter essere un meccanismo per prezzare più correttamente – rispetto a un mercato ritenuto “inefficiente” – il valore delle banche e per accelerarne il risanamento, la conversione di un titolo di debito in azioni di un’azienda in cui crede l’intero sistema bancario italiano, dovrebbe rivelarsi un buon affare.
Va tuttavia evidenziato che Atlante di per sé stabilisce interdipendenze potenzialmente pericolose tra istituti di credito, con implicazioni tutte da valutare sia sul profilo antitrust sia sui criteri di stabilità finanziaria. Come scrive Silva Merler, del think-tank Bruegel, “l’idea di avere un fondo finanziato da banche che interviene per comperare le azioni invendute di altre banche, è pericolosa: aumenterebbe le connessioni interne del sistema bancario italiano, con conseguenze sistemiche potenzialmente molto serie per un settore che rimane debole”. Se, come pare, il fondo avesse davvero l’obiettivo di fare da diga contro le scorribande di capitali stranieri nell’orticello nazionale del credito, sarebbe un pessimo segnale. Al contrario, Atlante dovrebbe porsi l’obiettivo strategico di avere partecipazioni significative da parte di istituzioni finanziarie internazionali. Se davvero Atlante è un investimento interessante, che usa il proprio capitale, finanziario e reputazionale, per stabilire un più corretto equilibrio del mercato, non dovrebbe avere difficoltà a ottenere adesioni. Poichè qualche banca già oggi lo definisce invece un “sacrificio” a fini di interesse generale, sia consentito qualche legittimo dubbio.
I paletti da decidere fin da ora
Infine Atlante dovrebbe essere a tempo: non può certo diventare una holding di partecipazioni bancarie, una mini-Iri del credito. Chiarisca oggi in quanti anni le partecipazioni dovranno essere dismesse. Lo stesso dicasi per i Npl: la quantità e la qualità dei crediti di cui la bad bank si fa carico dev’essere specificata, Atlante non può diventare un fondo specializzato nel mestiere di acquistare distressed asset. Questa categoria di attori lavora con le banche, ma deve necessariamente essere separata dalle banche. Quindi l’anomalia che vede la partecipazione di banche in un veicolo che rileva Npl deve essere a termine, e deve durare per un periodo significativamente più ridotto del termine per l’escussione delle garanzie, specie se questo verrà ridotto grazie alle modifiche che il governo dovrebbe apportare, e che potranno costituire un contributo sostanziale alla riduzione del divario tra prezzo di carico del credito e prezzo di realizzo.
tra debito e crescita