La fine del primato dell'economia italiana. Il caso del '600
Oggi, come ogni lunedì, è andata in onda la puntata della mia rubrica su Radio Radicale intitolata "Oikonomia". Qui potete ascoltare l'audio, di seguito invece leggere il testo con i link.
Come ho spiegato nelle due ultime puntate di questa rubrica, l’economia italiana alla fine del 500 raggiunse una posizione di primato che poi progressivamente iniziò a perdere nel 600. La caduta dell’attività produttiva interessò quasi tutti i settori, anche se – cito ancora una volta gli studi di Paolo Malanima, professore all’Università di Catanzaro – “non esiste una ragione unica della crisi”, ma “elementi riconducibili alle modalità del sistema – e quindi determinati dal suo funzionamento interno – si combinarono con elementi esterni di natura casuale – non determinati cioè dalle variabili interne del sistema”.
L’andamento turbolento e tendenzialmente al ribasso dei prezzi agricoli è un primo segnale importante, poiché riguarda un settore da cui dipendeva allora il 65% circa del prodotto aggregato italiano. “E’ stato detto che, in termini medi, le rese del grano ebbero una flessione fra la prima metà del Cinquecento e la prima del Seicento, intorno al 10-15%. La caduta sarebbe stata comune a tutta l’area mediterranea. (…) In questo quadro, con rese in declino e con prezzi, di conseguenza, in aumento, si collocano numerose annate particolarmente cattive, durante le quali la produzione crolla”. In sintesi, “mentre la popolazione di tutta Italia aumentava del 50%, passando da 9 milioni di abitanti nel 1500 a 13,5 nel 1600, e mentre ovunque si verificava un’estensione delle colture per mantenere l’equilibrio del sistema in crescita, dall’altro lato i rendimenti unitari dei terreni si riducevano, dopo la metà del secolo. Forse un 10-20% all’ettaro, le carestie diventavano più frequenti e le relazioni di scambio di prodotti alimentari fra regioni s’indebolivano”. Pressione demografica montante e stazionarietà delle tecniche agricole portarono a uno sfruttamento sempre maggiore dei terreni (con annessa indotta scarsità di azoto nei suoli a coltura). Da qui discese un crollo della produttività dei suoli, aggravato inoltre da un cambiamento climatico di lungo periodo, cioè la cosiddetta “piccola glaciazione” tra metà del 500 e metà dell’800.
Le città non furono risparmiate da questa caduta dell’attività produttiva. Innovazioni di prodotto e di mercato di altri paesi spiazzarono la fiorente industria italiana della lana. “Per quanto riguarda le innovazioni di prodotto – scrive Malanima riferendosi alla concorrenza inglese – la più importante era stata quella che aveva permesso la realizzazione di tessuti più a buon mercato e in particolare di tessuti di nuovo tipo collettivamente denominati ‘new draperies’. (…) Con questi prodotti – e in questo consiste l’innovazione di mercato – gli inglesi avevano cominciato a raggiungere sempre più spesso i centri di vendita del Sud dell’Europa”. Tuttavia il “peso del primato” italiano consisteva anche in salari che nelle città erano così alti, e tutt’altro che facilmente diminuibili, da rendere non percorribile la strada della concorrenza su questo piano.
Contemporaneamente le attività commerciali venivano scombussolate dall’apertura di nuove rotte che rendevano il mar Mediterraneo meno centrale. Basti dire che “con il ripristino della rotta del Capo è molto più vantaggioso procurarsi le spezie direttamente in Asia che nei mercati del Levante (cioè l’odierno medio oriente, ndr). Una libbra di pepe in Inghilterra aveva il prezzo di 3 shilling e 6 pence se acquistata ad Aleppo e di 1 shilling e 8 pence se acquistata direttamente nelle Indie”. Venezia dunque era tagliata fuori. Anche i commerci tra nord e sud Italia si contraggono, da una parte declina la domanda e dall’altra parte l’offerta. Di conseguenza scesero anche i redditi, non solo quelli degli agricoltori, visto che “l’abbondanza del fattore lavoro rispetto al fattore terra ha effetti redistributivi a svantaggio del salario”. In altri settori la concorrenza esterna si rafforzò e aumentarono i fallimenti di industrie e società commerciali: “In questo quadro non stupisce che i capitali commerciali, quando non vengono inghiottiti dai fallimenti, siano riconvertiti o in terre, o in titoli del debito pubblico. L’acquisto di terre è talora l’opportunità migliore, dati i prezzi ancora elevati, almeno sino al 1660 circa, dei prodotti agricoli. L’acquisto di titoli del debito pubblico – di luoghi di monte, come allora si chiamavano i titoli emessi dai diversi stati – è un’altra opportunità. Vi si rivolgono le famiglie agiate, spesso di mercanti, in tutta Italia. I banchieri genovesi soprattutto ne acquistano nell’Italia meridionale e anche all’estero. (…) La presenza di mezzi finanziari relativamente abbondanti rispetto alle opportunità d’investimento fa sì che i tassi d’interesse, dei luoghi di monte e non, diminuiscano”. Tuttavia tanto capitale a buon mercato, come è ormai noto nella fase attuale, non è sempre un buon segno.
L’autunno demografico che seguì l’esplosione della popolazione è un altro indizio della fine del primato italiano nel 600. “Anche per gli uomini, quando si è al limite della saturazione, le resistenze ambientali diventano forti sia che si osservino le cose dal lato della mortalità sia da quello dell’autoregolazione del potenziale biotico”. Si registrò così una coincidenza fra punte elevate nei prezzi dei cereali e aumento dei morti; in età preindustriale, normalmente tra i 200 e i 350 neonati su 1.000 morivano nel primo anno di vita; in occasione delle carestie il numero crebbe fino a 400 neonati ogni 1.000. C’entravano la sottonutrizione dovuta agli andamenti agricoli, ma anche il peggioramento delle condizioni igieniche e specialmente dell’igiene alimentare che alimentarono la diffusione della dissenteria e del tifo. Inoltre, seppur meno collegata con la crisi dell’agricoltura, la peste vide aumentare i suoi effetti letali, in ragione anche qui dell’elevata densità demografica e del peggioramento delle condizioni igieniche; al culmine della crisi agraria la peste fece la sua comparsa e colpì soprattutto l’area padana; nelle aree più colpite la mortalità fu superiore al 25%; “se si fa riferimento a tutta la popolazione del centro-nord, la mortalità fu del 17,5%. Nel 1600 gli abitanti erano 7.830.000. Nel 1650, quando in parte i vuoi erano già stati colmati, erano 6.230.000”. L’Italia nel 1600 aveva 13.500.000 abitanti, nel 1660 ne aveva 10.700.000.
Ecco in definitiva un insieme di segnali della crisi che investì con forza gli stati regionali dell’Italia di allora. Così perdeva il primato quello stesso quadro politico frammentato da cui secoli prima era originato un capitalismo fiorente, proprio mentre altrove in Europa – in Francia, in Spagna e in Inghilterra in particolare – si affermava il moderno stato militare-fiscale nazionale.