Sussidio universitario o investimento sui giovani?

Renzo Rosati
Niente tasse universitarie per gli studenti delle famiglie a basso reddito? L’idea di Matteo Renzi avrebbe un senso, se non la si ammanta di populismo, assistenzialismo, calcoli elettorali.

Roma. Niente tasse universitarie per gli studenti delle famiglie a basso reddito? L’idea di Matteo Renzi avrebbe un senso, se non la si ammanta di populismo, assistenzialismo, calcoli elettorali. Il governo collegherebbe l’esenzione all’Isee, che dovrebbe misurare la ricchezza familiare, per chi sta sotto i 13-15 mila euro. A lungo l’Isee è stato un colabrodo, con i famosi scandali degli studenti della Sapienza di Roma, esentasse ma con la Porsche in garage.

 

Con la riforma che ora include nell’Isee case e soldi in banca lo cose sono un po’ cambiate, ma l’indicatore resta inaffidabile e terreno di ricorsi giudiziari e dietro-front politici. Inoltre la “frequenza allo studio” per l’esenzione ipotizza “due esami l’anno e una decina di crediti formativi”, ben al di sotto della decenza. Ma soprattutto l’operazione significherebbe ancora mettere a carico di tutti i contribuenti il sostegno a una fascia minoritaria della popolazione. Dunque, se non vogliamo tornare alle “università dal popolo”, è logico chiedersi quale sarebbe il ritorno dell’idea renziana.

 

Ha molto senso per un paese investire sui giovani. Appunto investire, però. Lo fa la Germania, dove le università pubbliche sono gratuite e solo in alcuni Länder  c’è una tassa di 500 euro. Stessa cosa in Scandinavia, mentre in Francia le rette sono più basse che in Italia. Però il sistema formativo tedesco e scandinavo prevede controlli seri nello studio e l’obbligo successivo di iscrizione alle agenzie pubbliche del lavoro, che funzionano, a differenza di quelle italiani, e in parte francesi. Il risultato è che in Germania la disoccupazione giovanile è al 7 per cento, in Scandinavia intorno al 10, in Francia al 25.

 

In Italia siamo appena scesi sotto il 40. In attesa di capire se la colpa è più dello stato o del familismo latino, perché non importare il prestito universitario delle università anglosassoni? Negli Usa e in Gran Bretagna le rette sono salate, ma gli studenti possono chiedere un finanziamento di alcune decine di migliaia di dollari o sterline, a scadenza ultratrentennale, che viene poi restituito appena si comincia a guadagnare. C’è la possibilità di sospendere i pagamenti se si resta temporaneamente senza lavoro. Ma accade raramente, perché i giovani sono incentivati a darsi da fare, le famiglie a non mantenerli a casa, il sistema universitario a orientare gli studenti al mercato.

 

Un esempio? La Stanford University di Santa Clara, California, ha guadagnato milioni di dollari con i brevetti di aziende come Google, Apple, Cisco, Sun Microsystem, Yahoo!, Hp. Tutte fondate dai suoi allievi, con finanziamenti privati. Eppure il suo fiore all’occhiello è la filosofia, possibile grazie al meccanismo di finanziamenti, prestiti, soldi che rientrano. In Inghilterra anche Oxford, con i suoi 27 premi Nobel nella scienza, finanzia le discipline umanistiche. E così Cambridge, le cui facoltà mediche, biologiche, fisiche e matematiche, da Newton alla scoperta del Dna, ripagano i corsi di letteratura e politica. Con un bilancio di 4 miliardi l’anno, grazie a donatori come Bill Gates: benché Cambridge sia un’università pubblica. I nostri docenti e studenti, che rifiutano i test Invalsi, sono pronti a uno choc simile?

 

Di più su questi argomenti: