La versione di Jason Furman
Cos'è il virus “americano” che ora Renzi sogna d'inoculare in Europa
Bruxelles, dal nostro inviato. “Puoi vedere la situazione attuale dal lato del pil e dell’occupazione. Oppure dal lato dell’inflazione e dei consumi. Il risultato non cambia: a spiegare la divaricazione tra la ripresa degli Stati Uniti e quella dell’Eurozona sono comunque la rapidità e la compattezza delle misure fiscali, monetarie e finanziarie che noi abbiamo preso e gli europei no”. Lo ha detto ieri Jason Furman, capo economista del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, rispondendo a una domanda del Foglio. Quarantacinque anni, studi a Harvard e alla London School of Economics, Furman è dal 2013 alla Casa Bianca, e mercoledì è intervenuto davanti a un gruppo di economisti, banchieri e rappresentanti delle istituzioni comunitarie riunito dal pensatoio brussellese Bruegel Institute. E’ in questa sede che, utilizzando toni estremamente diplomatici, ha messo in fila dati e analisi impressionanti sul solco economico che si sta approfondendo tra le due sponde dell’Atlantico. Quello di Furman, tra l’altro, è un ragionamento nelle corde degli economisti di Palazzo Chigi: partendo da una diagnosi dell’eurosclerosi del tutto sovrapponibile a quella della Casa Bianca, dicono a Roma, il governo italiano studia le prossime mosse sul fisco (Ires e Irpef incluse).
Jason Furman
L’analisi di Furman comincia con una fotografia dell’esistente. Alla fine del 2013, il pil pro capite americano è già tornato ai livelli del 2007; oggi addirittura supera del 3 per cento quei livelli pre-crisi. Nell’Eurozona il pil pro capite è ancora inferiore di un punto percentuale rispetto al 2007. Il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è al 5 per cento; nell’Eurozona è pari al doppio. Come si è creato un distacco simile? La risposta di Furman è triplice. “C’è stato un approccio differente alla domanda aggregata”, visto che gli Stati Uniti hanno adottato una dozzina di pacchetti fiscali espansivi, per un totale di 1.400 miliardi di dollari di stimolo, cioè il 2 per cento del pil ogni anno dal 2009 al 2012. La Federal reserve poi ha azzerato i tassi di riferimento dal dicembre del 2008 e ha espanso il proprio bilancio fino a 4.400 miliardi di dollari. La ricapitalizzazione delle banche, inoltre, è stata immediata. Visti da Washington, noi abbiamo fatto l’opposto. “Una stretta sui conti pubblici troppo rapida e prematura”. Poi – prosegue l’economista – la Banca centrale europea che, oltre a essere stata più lenta della Fed nel ridurre il costo del denaro, “addirittura lo ha anche aumentato di nuovo nel 2011”, per espandere seriamente il proprio bilancio solo nel 2015 con il Quantitative easing. Infine la frammentazione nazionale della politica finanziaria e un primo stress test sulle grandi banche giudicato poco credibile hanno aggravato il malessere europeo. Così, per due volte, l’economista cita l’odierna situazione critica degli istituti di credito italiani come paradigmatica delle difficoltà europee.
Il capo economista di Obama è stato di recente in Italia, ospite del think tank renziano Volta. In quella sede, chi segue i dossier economici per il presidente del Consiglio gli ha fatto notare due ulteriori differenze tra Nuovo mondo e Vecchio continente. Entrambe militano a nostro sfavore. Primo: in America, la pressione fiscale è diminuita lievemente (dello 0,7 per cento) tra il 2007 e il 2015; nel Regno Unito è calata dell’1,7 per cento; nell’Eurozona è passata invece dal già elevato 39,9 per cento del pil al 41,5 per cento del pil. Il rigore si è perseguito innanzitutto alzando le tasse. Inoltre, hanno osservato a Palazzo Chigi, “le esportazioni vibranti non possono compensare da sole i consumi privati deboli e gli investimenti in calo”: nell’Eurozona i consumi privati hanno contribuito per lo 0,2 per cento alla crescita del pil tra 2007 e 2015, le esportazioni invece per il 2,9 per cento; in America, nello stesso periodo, i consumi privati hanno contribuito per il 7,8 per cento alla crescita del pil, le esportazioni per l’1,6. Che fare per imitare almeno un po’ l’America in questo campo? Renzi, alla direzione del Pd d’inizio settimana, ha ricordato che nei primi vertici del Consiglio Ue era “solo come un virus” a tessere le lodi della flessibilità fiscale. Da allora di strada se n’è fatta, ma il presidente del Consiglio e i suoi collaboratori non ritengono certo di poter imporre un cambiamento del modello di sviluppo a trazione esportatrice che tanto piace alla Germania e che in buona parte sta bene anche alla nostra industria. Una mediazione è possibile, spiegano al Foglio fonti dell’esecutivo, e si chiama taglio delle tasse: Irpef (sui redditi) o Ires (sulle imprese), oppure entrambe. Ridurre l’Irpef rilancerebbe i consumi domestici; d’altronde nella stessa direzione è andato lo sgravio di 80 euro mensili per i redditi più bassi. Invece ridurre l’Ires – ipotesi che il governo considera, come anticipato dal Foglio ad aprile – stimolerebbe gli investimenti che addirittura, negli ultimi anni, hanno fatto da zavorra alla crescita dell’Eurozona.
Renzi, da “virus solitario” che si aggirava nel Palazzo Justus Lipsius nell’estate 2014, sogna insomma nelle prossime settimane del 2016 di riuscire a inoculare un virus americano nel corpaccione europeo. Attraverso la leva fiscale. Altre sponde che vadano in questa direzione, anche a Bruxelles, non mancherebbero. Sempre Furman ha giudicato “un primo e benvenuto passo” il Piano Juncker di investimenti. Né è un caso che – mentre parlava affiancato anche da Marco Buti, rigorosissimo direttore generale della Commissione per gli Affari economici e finanziari – abbia riconosciuto come “positivo” il fatto che la spesa corrente per gestire la crisi migratoria non sarà conteggiata ai fini dei vincoli di bilancio, aggiungendo che “la stessa logica” si dovrebbe applicare ad altri settori. L’economista americano non vuole far passare il messaggio semplicistico per cui più si spende e più ci si espande. Risollevare la produttività totale dei fattori, nel lungo periodo, è la principale “sfida comune” che attende America ed Europa, con la prima che parte anche qui con un po’ di vantaggio. Come fa un continente a diventare più produttivo e a ridurre allo stesso tempo la diseguaglianza? “Investendo in infrastrutture e ricerca. Poi semplificando le regole del fisco, combattendo le posizioni di rendita ovunque esse siano, anche liberalizzando l’accesso alle professioni. Infine un’economia diventa più competitiva se promuove l’innovazione attraverso lo scambio di merci e servizi. Noi americani lo stiamo facendo grazie alla Trans-Pacific Partnership (Tpp) con i paesi asiatici – ha detto Furman in conclusione – Spero che gli europei vogliano approfittare degli ultimi mesi della presidenza Obama, così favorevole all’accordo di libero scambio transatlantico (il Ttip), per chiudere almeno il negoziato”. Perché poi, a cavallo delle elezioni dell’8 novembre, l’alleato americano potrebbe avere altro cui pensare.