L'Europa dei "Matusalemme bond": arriva il grande sollievo?
Roma. Non c’è solo la Grecia, con l’evergreen dell’imminente probabile, ristrutturazione del suo debito pubblico. Ristrutturazione nel caso certamente hard, e non solo perché sostenuta dal Fondo monetario internazionale in contrasto con i falchi tedeschi: di fatto Atene è nuovamente insolvente e si interverrebbe sulle emissioni in corso – essenzialmente materia di trader professionali non essendo il Tesoro ellenico più tornato sul mercato aperto – con un mix di allungamento delle scadenze, taglio dei tassi, tetto ai rimborsi annuali e condizionalità stringenti. Ma appunto il destino della Grecia resta un problema a parte, deciso da altri, salvo una certa resistenza del governo di Alexis Tsipras a riformare le cose più ovvie: si può ancora percepire una pensione con 20 anni di contributi, l’area di esenzione fiscale è più alta della media europea, i contributi previdenziali più bassi.
Nel resto d’Europa il cantiere dei debiti pubblici e della loro ristrutturazione soft, cioè con emissioni extra-lunghe, si sta invece riaprendo. In paesi mediterranei come l’Italia che ha allo studio un Btp a 50 anni, ufficiosamente denominato “Matusalemme”, e la Spagna che martedì ha affidato a un consorzio di banche il mandato di collocare un Bonos sempre a scadenza 2066, dopo che nel 2014 ne era stato piazzato un altro con la formula dell’asta chiusa. In quel caso il tasso fu del 4 per cento, in proporzione più generoso dell’1,6 di rendimento medio dei titoli spagnoli decennali. Ma anche Francia e Belgio hanno emesso titoli cinquantennali, nel primo caso all’1,93 per cento e domanda più che doppia dell’offerta. E’ iniziato il “grande sollievo”?
Per il cinquantennale italiano i mercati stimano un tasso superiore al 2 per cento, pari ad almeno 200 punti di spread (oggi i Btp a 10 anni sono all’1,5). Il ministero dell’Economia precisa però che non c’è nulla di deciso, “se non i dovuti approfondimenti”. E d’altra parte, “già nelle Linee guida per la gestione del debito pubblico 2016 si era preannunciata l’intenzione di esplorare nuove scadenze nella parte più a lungo termine della curva dei rendimenti”, cioè 15 e 30 anni. Per i paesi ad alto debito allungare le scadenze ha il vantaggio di alleviare il peso delle cedole annuali, come per un cliente che sottoscrive in banca un mutuo a 40 anni. Ma alla stessa maniera aumenta il capitale totale da rimborsare. Questo valore però non è al momento nell’occhio del ciclone dei parametri europei, come invece il deficit (che include gli interessi annuali), e soprattutto l’indebitamento netto. Sul quale l’Italia è sempre in affanno, con la Commissione europea che stima che la discesa prevista dal governo nel 2016 non sia neppure iniziata: il rapporto con il pil resta inchiodato al 132,7 per cento rispetto al 132,4 promesso.
Su questo punto c’è stato un piuttosto ruvido scambio di note tra Marco Buti, italiano anche lui e direttore generale degli Affari economici della Commissione, e Vincenzo La Via, suo pari grado al Tesoro. In risposta alle osservazioni di Buti, che ha chiesto “quali siano i fattori rilevanti che giustifichino la violazione della regola che impone il taglio di un ventesimo l’anno della parte di debito superiore al 60 per cento”, il Mef ha risposto ieri che “rispettare quella regola è virtualmente impossibile in tempi di crescita bassa o negativa. Nel caso dell’Italia, per ridurre come richiesto un debito del 132,7 per cento occorrerebbe una crescita annua del pil nominale (compresa inflazione) del 2,74 per cento. Sfortunatamente negli ultimi due anni la crescita nominale è tornata sì in territorio positivo, ma solo dello 0,4 nel 2014 e dell’1,5 nel 2015. Anzi, una crescita pari a quella necessaria non si verifica dal 2008”. A parte i tecnicismi, il senso è che senza interventi un po’ straordinari l’Italia non ridurrà mai il peso del proprio debito. E, pur essendo questo il secondo d’Europa dopo la Grecia, il problema è anche di altri.
Se la discesa è ferma al palo a Roma, tra i paesi più indebitati fanno registrare aumenti Belgio (mezzo punto), Spagna (mezzo punto) e Francia (0,6). Si tratta di quelli che stanno allungando le scadenze (in più ci sono Regno Unito, Croazia e Finlandia); ed è difficile pensare a pure coincidenze. Del resto di ipotesi di ristrutturazione più o meno creative e più o meno fuori dagli automatismi di Maastricht ci si sta occupando anche nei think tank vicini al cuore decisionale dell’Europa. Come ha riportato il Foglio del 6 maggio, dal Centre for Economic Policy Research viene uno studio firmato tra gli altri dagli economisti Giancarlo Corsetti (Cambridge), Lars Feld (Walter Eucken Institute in Germania) e Lucrezia Reichlin (editorialista del Corriere della Sera e già capo economista della Bce) che dà ragione al presidente della Bundesbank Jens Weidmann sulla creazione di un’autorità europea indipendente dalla politica per “la ristrutturazione del debito pubblico dell’Eurozona” e sulla ponderazione del rischio dei titoli di stato detenuti dalle banche; mentre sostiene che questo non può “accadere dall’oggi al domani” per i rischi di instabilità sui mercati, e che almeno una quota dei debiti dovrebbe essere comprata da un nuovo Fondo di stabilità europeo. Una sorta di eurobond 3.0. Intanto, il cantiere delle ristrutturazioni apre senza il direttore dei lavori. Con la soluzione tipica di chi ha pochi soldi: allungare le rate.