Tra fossile e rinnovabili
Ecco a cosa punta Descalzi quando spinge l'Eni a correre sul “tappeto verde”
Tra fossile e rinnovabili. Nuovi percorsi dopo il referendum sulle “trivelle” e l’onda giustizialista lucana. Numeri, futuro, strategie.
Roma. Dall’assemblea ordinaria di Eni che ha approvato il bilancio 2015, l’amministratore delegato del Cane a sei zampe, Claudio Descalzi, ha fatto intendere di voler accelerare, sia perché nel 2017 scade il suo primo mandato al vertice della maggiore azienda statale italiana per capitalizzazione di Borsa, sia per i conti che, seppure non allarmanti, segnalano dati da non sottovalutare. Eni prova a rispondere alle difficoltà del mercato petrolifero perseguendo la definitiva trasformazione in campione dell’upstream (estrazione), andando a caccia di pozzi nel mondo e cercando di ridurre i costi e liberandosi di qualche carico. I ricavi della gestione caratteristica registrano un calo di 25 milioni di euro, l’utile netto ha fatto segnare un segno meno pari a 7 milioni, mentre è aumentato l’indebitamento finanziario netto di circa 3 milioni, anche se Descalzi proprio sul debito non ha mancato di lanciare qualche stoccatina alla gestione precedente, quella di Paolo Scaroni: “Mentre il prezzo del petrolio scendeva siamo riusciti a diminuire il debito, a fine anno il debito complessivo è stato di 11 miliardi, nel 2011 avevamo un debito di 20 miliardi con prezzo del greggio a 100 dollari”, ha detto l’amministratore delegato.
Descalzi, che esaurirà il suo primo mandato l’anno prossimo e che ieri è stato elogiato da Renzi (“Orgoglioso della sua nomina”), ora sembra volere correre. La prima corsa è per abbassare ancora i costi, inseguendo il breakeven col prezzo del greggio (Eni sostiene di cavarsela anche a 27 dollari al barile). “Le società con un breakeven basso come Eni vivono. Le società con un breakeven troppo alto non dico che muoiono ma entrano in una sofferenza importante”, ha detto parlando agli azionisti. I risultati derivanti dalle attività di esplorazione sul greggio sembrano dare ragione alla compagnia italiana: il valore delle risorse accertate tocca i 41 miliardi di dollari. In tempi difficili, però, meglio allontanarsi da progetti dai tempi biblici: “Voglio una produzione a basso costo, semplice e che entri sul mercato in pochi mesi”, ha detto. Nei prossimi quattro anni Eni taglierà gli investimenti del 21 per cento (37 miliardi) a fronte dello sviluppo di progetti chiave in Egitto (Zohr), Indonesia (Jangkrik), Angola (West Hub). L’assemblea s’è tenuta all’indomani della chiusura dell’inchiesta giudiziaria sul Centro Olio di Viggiano in Basilicata – Eni ha dovuto chiudere i pozzi sotto sequestro preventivo e presto potrebbe andare in sofferenza anche la raffineria di Taranto, facendo perdere all’azienda 20-30 milioni su base annua, anche se ieri Descalzi ha detto che Taranto non verrà chiusa “per senso di responsabilità” – e alla vigilia dello sciopero dei lavoratori di Eni e Saipem, invocato dal settore chimico.
I sindacati, in piazza oggi a Roma, paventano il “disimpegno” di Eni dall’Italia. Descalzi ha risposto che investirà 8,4 miliardi in futuro, di cui uno nella chimica. Non è chiaro quanto di questa cifra verrà destinata al distretto emiliano dell’Oil&Gas – i cui lavoratori hanno fatto campagna per nullificare il referendum sulle “trivelle” – dove invece si stanno riducendo gli importi dei contratti di fornitura alle imprese dell’indotto. Il piano sulle rinnovabili annunciato ieri sul Corriere rientra nel percorso di Eni (Descalzi ieri ha precisato che il piano vale circa 1 miliardo) e potrebbe permettere all’azienda non tanto di incidere sul reale tentativo di modificare il mix energetico del gruppo ma quanto di cambiare in positivo il pregiudizio ambientalista montato dopo il referendum e l’onda giustizialista lucana.