Il deal Nissan-Mitsubishi ridimensiona la grandeur francese
Milano. Provaci ancora, Carlos. Sedici anni dopo aver affrontato – e vinto – la sfida del risanamento di Nissan, allora sull’orlo del fallimento, Carlos Ghosn, numero uno della casa giapponese e di Renault, ingaggia un’altra sfida ad alto rischio: il salvataggio di Mitsubishi Motors, rea confessa di avere truccato i risultati delle emissioni dei suoi motori dal 1991. Ovvero da almeno 25 anni, come ha candidamente confessato il presidente Tetsuro Aikawa (“ma io non ne sapevo niente” è la sua improbabile difesa). Un disastro, costato nel giro di due settimane un salasso del 40 per cento sul valore di Borsa, che ha costretto Mitsubishi, una delle grandi conglomerate finanziarie e industriali di Tokyo, a cercare un partner in grado di evitare il collasso. E chi meglio di Ghosn, insostituibile manager libanese che governa il suo impero franco-nipponico in (quasi) totale autonomia? Ieri mattina, a Tokyo, Ghosn, affiancato dal collega giapponese Osamu Nasuko, ha annunciato che per 237 miliardi di yen (2 miliardi di euro) Nissan ha acquisito il 34 per cento del gruppo nipponico diventando così il primo azionista, davanti alla stessa Mitsubishi Industries.
Il nuovo socio avrà diritto a quattro consiglieri, oltre al presidente. Ma, ha spiegato Ghosn, l’integrazione non finisce qui. I due gruppi condivideranno più o meno tutto: tecnologie, componenti, investimenti nell’auto elettrica e nelle vetture a guida autonoma. La governance, cioè la missione di restituire credibilità al marchio travolto dallo scandalo, sarà tutta nelle mani del Napoleone dell’auto, il manager libanese (mezzo venezuelano) che non dà interviste, spina nel fianco del potenziale candidato all’Eliseo, il ministro dell’Economia, Emmanuel Macron, che ha sottolineato spesso (e invano) che “Ghosn è un manager, non l’azionista”. Ma quel manager è da ieri l’uomo più potente dell’industria mondiale delle quattro ruote, al centro di una rete finanziaria composta da Renault (controllata dallo stato francese ma con una quota del 15 per cento in mano ai giapponesi che hanno diritto di veto sulle scelte strategiche), Nissan (per un 43 per cento in mano alla stessa Renault) e da oggi anche Mitsubishi. In tutto un gruppo che vende 9,5 milioni di vetture nel mondo, comprese Thailandia e Filippine (i mercati più forti di Mitsubishi): un soffio meno di Volkswagen (9,9 milioni) e Toyota (10,1 milioni).
Nessun concorrente può contare su un leader così carismatico, con l’eccezione di Sergio Marchionne – terzo tra gli uomini più influenti del settore secondo il sito The Drive del gruppo Time – che, ricambiato, detesta. Non è difficile intuire la soddisfazione di Ghosn per avere centrato una fusione nel mondo dell’auto, laddove super Sergio ha bussato invano alla porta di Gm. Ancor maggiore la soddisfazione per aver dato scacco a Macron, ex banchiere Rothschild, ultima incarnazione dello stato imprenditore colbertista: il blitz in Mitsubishi ha oscurato l’intesa tra Peugeot e i cinesi di Dongfen. In ossequio alla legge Florange, che prevede voto doppio per gli azionisti stabili, cinesi e governo francese saliranno al 19 per cento ciascuno in Psa, cementando un’alleanza dal sapore politico mentre Ghosn, deciso a difendere il suo stipendio “politically incorrect” (7,25 milioni di euro, il triplo di un anno fa), consapevole che l’asse tra Parigi e Tokyo è dura finché c’è la sua garanzia. Che i padroncini dell’Eliseo contano poco lo scoprì Nicolas Sarkozy, che invano chiese a Ghosn di dirottare in Francia gli investimenti diretti in Turchia. L’industria francese, Renault più Psa, ha consolidato l’alleanza con l’Asia. Scelta di mercato e anche tecnologica che potrebbe coinvolgere la tedesca Daimler, partner di Renault nello sviluppo dell’auto elettrica, in competizione con l’industria americana, sia quella tradizionale di Detroit, Ford e Gm, sia i nuovi ruspanti rivali della Silicon Valley, Google più Apple, scelti da Fiat Chrysler.