Il liberismo fiducioso di Pannella
Erano quasi infinite, solo a volerlo, le strade per cui si poteva arrivare a Marco Pannella e ai Radicali. Altrettanti i bivi ai quali si poteva scegliere di mollare entrambi. Una bandiera americana al momento giusto, a un anno dagli attentati dell’11 settembre 2001, mentre in Italia sventolavano soltanto vessilli ignari per la pace, fu sufficiente al sottoscritto per incuriosirsi e avvicinarsi. E non mollarli più, Pannella e i Radicali, fosse anche solo per esercitarsi a dissentire. Dalla giustizia alle carceri, da Israele ai diritti civili, il Foglio – come abbiamo ricordato ieri su queste colonne, oltre che con il materiale d’archivio ripubblicato sul nostro sito – non si è mai negato incontri e scontri con Pannella e compagni. Nemmeno sull’economia: “Pannella chiede alla sinistra di togliere quel debito a ogni neonato”, s’intitolava nel 2007 un intervento fogliante firmato dallo stesso leader radicale; “L’ad di Fiat Marchionne? Per Pannella è un nuovo Salvemini (lo sappia o no)”, è un’intervista del 2010; l’anno scorso, Claudio Cerasa indicava nelle privatizzazioni-liberalizzazioni proposte dai Radicali a Roma l’antidoto contro “la vacca” delle municipalizzate che si stagliava dietro il polverone chiamato “Mafia Capitale”. E altro ancora.
Tuttavia ieri, se si fa eccezione per Guido Gentili sulla prima pagina del Sole 24 Ore e per un commento di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza, l’iniziativa radicale in materia è stata negletta. La “scienza triste” non era forse adatta al momento della celebrazione, e quindi era da relegarsi ai giornali finanziari? O addirittura Pannella, come vorrebbero certe agiografie troppo semplicistiche, era tutto scioperi della fame e diritti civili? Nulla di tutto questo. Gentili ha ricordato per esempio che “in economia il maestro di Pannella fu Ernesto Rossi (…), un antimonopolista ruggente – compreso quello sindacale – e fustigatore del capitalismo assistito”. Non a caso il leader radicale, parlando al Foglio della parabola di Sergio Marchionne nei mesi in cui l’amministratore delegato di Fiat era demonizzato per il suo tentativo di scardinare la concertazione nazionale, accostò il manager in pullover a un maestro di Rossi: “Gaetano Salvemini, anche lui americano acquisito. All’inizio del secolo scorso, egli riconobbe nell’alleanza industrialista tra aristocrazie operaie e imprese succhia-stato il fattore che impediva lo sviluppo del paese, e uscì contemporaneamente dal Partito socialista e dal sindacato”. Non c’è solo il pantheon.
Il liberismo dei Radicali, infatti, è stato tutt’altro che scolastico. Innanzitutto perché, attraverso i referendum e altre campagne, la libertà economica è diventata un loro obiettivo politico fin dagli anni 80. Con Pannella che, comiziando, si rivolgeva così a una città “rossa” come Bologna: “La pensione a cinquant’anni è una coglionata! La pensione, che era una battaglia di liberazione 60 anni fa, oggi rischia di essere una condanna alla morte civile. Noi dobbiamo rivendicare il diritto del tempo libero e del tempo di lavoro in un ambiente diverso. Per tutti. A 70 anni si è giovani se si vuole”. Intanto la pattuglia radicale in Parlamento, artefice tra gli altri Marcello Crivellini, suggeriva come priorità un rientro rapido del debito pubblico italiano per proteggere le future generazioni. Pannella, d’altronde, è stato l’unico leader politico nazionale a citare, fino a pochi mesi fa, Amilcare Puviani e Antonio De Viti De Marco, economisti italiani di fine 800-inizio 900. Tutt’altro che polverosi liberisti. Si tratta di autori ancora studiati in America per le loro intuizioni sulla “illusione finanziaria”, cioè la tecnica praticata dagli stati per alimentare la spesa pubblica e gli interessi a essa connessi, celando ai cittadini i costi di tale scelta grazie al debito pubblico e alle imposte occulte.
Seguirono gli anni 90 e 2000, con partite Iva e piccoli imprenditori paragonati dai Radicali al nuovo “Terzo stato”, i referendum per limitare i poteri speciali del Tesoro sulle aziende pubbliche o per abrogare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: allora piovvero le accuse, addirittura di “violazione dei diritti umani”; Pannella rispose a tono alla “trimurti”, come aveva ribattezzato Cgil, Cisl e Uil, ma non uscì vittorioso. Il suo liberismo, forse, fu troppo precoce per l’Italia. Sicuramente non fu vano o ideologico. Alla sua radice c’è sempre stata un’estrema fiducia nelle capacità dell’individuo, la cui libertà d’agire e di sbagliare va difesa da padronati e sindacati-chiesa, oltre che da uno stato-balia che si può trasformare in oppressore.