Come sarebbe un mondo senza finanza?
Roma. La maggioranza dei leader politici e d’impresa attuali si è fatta le ossa nell’èra post 1991, periodo spesso descritto come pacifico e prospero, in Europa in particolare. Dopo la prolungata crisi finanziaria ed economica mondiale, dare per scontato che tale stato di cose proceda lungo un percorso evolutivo lineare può minacciare la stabilità politica dei regimi democratici europei. Migliorare la situazione in termini di aumento degli standard di vita, di mobilità sociale, di livelli di reddito è un obiettivo strategico di massima rilevanza nel difendere la possibilità di un buon governo dall’ascesa dei movimenti cosiddetti populisti, mentre il possibile distacco del Regno Unito dall’Unione europea emerge come un rischio geopolitico innescato per la prima volta da un voto popolare. Tuttavia, negli ultimi anni, la classe politica pare avere demandato alle autorità monetarie il ruolo di difensore di prima e di ultima istanza della prosperità. L’eccesso di fede è rischioso.
I leader dei sette paesi più industrializzati del mondo, riuniti la settimana scorsa a Tokyo, si sono limitati a constatare che l’economia globale è “una priorità urgente”. Intanto il consesso dei ministri economici e finanziari dell’Ue disquisiva dei decimali di flessibilità fiscale da concedere ai paesi membri. La Banca centrale europea è stata l’unica istituzione che di recente ha potuto ricordare che senza le inedite azioni di politica monetaria già dispiegate e quelle annunciate l’Eurozona sarebbe in recessione. Gli stimoli monetari da soli possono garantire una crescita del pil dell’1,5 per cento tra il 2015 e il 2018, secondo le stime Bce.
Mario Draghi ha rivendicato ancora ieri “l’effetto Bce” sull’economia europea, che ha avuto un decente inizio d’anno – più 0,5 per cento nel primo trimestre – ma fatica a tenere il passo e a ridurre il tasso di disoccupazione continentale (ancora al 10,2 per cento). Nella conferenza stampa successiva al Consiglio direttivo della Bce riunitosi eccezionalmente a Vienna, capitale dell’Austria che ha flirtato con la destra nazionalista al primo turno delle presidenziali di maggio, Draghi ha esortato nuovamente i capi di governo a fare la loro parte e a non crogiolarsi nella sicurezza del denaro facile. Draghi ha chiesto ai governi dei 19 paesi dell’Eurozona di eliminare i lacci che imbrigliano l’occupazione e ostacolano l’attività d’impresa e di spendere di più in infrastrutture o in altri investimenti, se le finanze lo permettono; messaggio rivolto alla Germania, campione d’equilibrio di bilancio con arterie di trasporti stradali modeste.
“Abbiamo notato un pieno impatto delle misure che abbiamo deciso a marzo. Restiamo concentrati sull’implementazione”, ha detto Draghi. La Bce ha lasciato i tassi di interesse a cui le banche si finanziano ai minimi storici e a meno 0,4 per cento il tasso al quale le banche depositano denaro a Francoforte per incoraggiare prestiti e investimenti. Inoltre la Bce sta acquistando ogni mese 80 miliardi di euro di titoli pubblici (pomperà nell’economia 2.400 miliardi di euro entro il 2018) nel tentativo di portare il tasso di inflazione dallo 0,1 per cento attuale a un livello inferiore ma vicino all’obiettivo del 2 per cento; target inderogabile per Draghi che ha negato la possibilità di modificarlo verso il basso o verso l’alto come suggerito di recente sia in ambienti accademici sia dentro al Consiglio Bce. La Bce ha pure confermato che a partire dall’8 giugno inizierà l’acquisto di obbligazioni di società non finanziarie che hanno sede nell’Eurozona (probabilmente tra i 5 e i 10 miliardi di euro al mese) attraverso le Banche centrali di Belgio, Germania, Spagna, Finlandia, Francia e Italia e dal 22 giugno garantirà nuovi prestiti agevolati alle banche.
La Bce ha rivisto al rialzo le stime di crescita dell’Eurozona per quest’anno (da 1,4 a 1,6) mantenendo invariate quelle al 2017 (1,7) e limandole al 2018 (da 1,8 a 1,7). Le stime dell’inflazione sono ritoccate all’insù (da 0,1 a 0,2 per cento) grazie all’aumento del prezzo del greggio: il Brent ha guadagnato il 75 per cento da gennaio attestandosi sui 50 dollari al barile. L’Opec, riunitosi ieri sempre a Vienna, di nuovo non ha trovato un accordo sull’aumento della produzione.
I banchieri centrali non possono restare “the only game in town”, l’unica opzione possibile, come recita il titolo dell’ultimo saggio di Mohamed Aly El-Erian, ex ceo del fondo americano Pimco. La finanza cura la finanza, Draghi e colleghi sono stati quindi essenziali nel temperare gli choc multipli della crisi ma non possono restare i soli a farlo per molto tempo ancora. (a.bram.)