Perché cercare la “testa” migliore è solo il primo problema di Unicredit
Roma. A cercare un nuovo amministratore delegato di Unicredit dopo le dimissioni di Federico Ghizzoni penseranno i “cacciatori di teste” della svizzera Egon Zehnder. L’idea di un capo straniero aggrada gli investitori della banca che in maggioranza vengono dall’estero. Tuttavia trovare il nuovo ad entro il cda del 9 giugno è solo il problema più urgente – dall’addio di Ghizzoni, il 24 maggio, la banca ha perso l’8 per cento in Borsa con BlackRock, azionista pesante, a fare trading sul titolo arrivato ieri ai minimi da 4 anni. I requisiti patrimoniali pretesi dai regolatori perseguiteranno l’istituto a lungo. Martedì nella sua relazione annuale il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, è tornato a invocare una revisione delle regole europee sui salvataggi bancari che da quest’anno avverranno a carico di azionisti e obbligazionisti non garantiti e non più dei contribuenti, terminando l’éra dei bail-out in Ue e in Svizzera. Visco ha auspicato una deroga al principio del bail-in e, rivolgendosi alle autorità comunitarie, ha chiesto di lasciare spazio a interventi pubblici “eccezionali” ricordando che le richieste della delegazione italiana di ritardare l’entrata in vigore del nuovo paradigma sono state bypassate da Bruxelles.
Doglianze tardive? L’Italia ha approvato la direttiva sul bail-in a novembre 2015 ma se ne parla dal 2010 anche in convegni pubblici. Ma c’è una questione tecnica nell’architettura del bail-in preferita dall’Italia che sarà problematica per Unicredit in futuro. Nel recepire la direttiva sulle risoluzioni bancarie, l’Italia ha stabilito che ogni tipo di deposito, inclusi quelli delle grandi imprese e quelli interbancari, sia posto in cima alla gerarchia dei soggetti da proteggere in caso di bail-in allo stesso livello degli obbligazionisti ordinari, tra i quali ci sono anche risparmiatori comuni, che non possono essere aggrediti fino al 2019 quando il grosso delle obbligazioni arriverà a scadenza. Lo svantaggio di quest’approccio, dice la società d’analisi indipendente CreditSights, grava su Unicredit che è l’unica banca italiana di rilevanza sistemica globale e deve perciò avere requisiti prudenziali stringenti in fatto di capacità di assorbire perdite (Total-loss absorbing capacity, Tlac), secondo le disposizioni del 9 novembre 2015 del Financial Stability Board, l’organo di monitoraggio dei rischi finanziari mondiali. Se i depositi e le obbligazioni ordinarie non possono essere immediatamente aggredibili in caso di risoluzione di Unicredit, la banca dovrà generare una certa massa d’altra natura per non essere in difetto rispetto al volume di passività che possono essere svalutate o convertite in azioni in caso di bail-in.
CreditSights stima che Unicredit dovrà emettere obbligazioni subordinate (Tier 2), le prime a essere azzerate in caso di risoluzione, per 17 miliardi di euro entro il 2022 quando la nuova regolamentazione per le banche sistemiche arriverà a regime. Forse la questione non era al centro dell’attenzione delle autorità italiane durante la declinazione domestica della direttiva europea; la Germania invece ne ha tenuto conto. S’è saputo ieri che un mese fa l’Italia e la Francia (Parigi ha quattro banche “sistemiche”) hanno inviato un documento ufficioso alla Commissione europea chiedendo di non appesantire le Tlac. Il problema più dibattuto per Unicredit resta però il prossimo aumento di capitale. Equita, società di intermediazione mobiliare gestita dall’ex ad di Unicredit Alessandro Profumo, autore dell’espansione oltre confine foriera di criticità tuttora attuali, dice che serviranno 5 miliardi per assicurare un confortevole rapporto tra patrimonio e attivo ponderato per il rischio. Lo schiaffo dell’ex.