Uber fa colpo sui capitali emergenti, meno sugli europei corporativi
Milano. Uber e le altre aziende della sharing economy rappresentano ormai uno strumento formidabile di attrazione di investimenti stranieri per gli Stati Uniti, ma continuano a dividere l’opinione pubblica e le istituzioni specialmente in Europa. Persino la Commissione Ue, nelle sue linee guida emanate ieri, pur non vietando questi servizi ha riconosciuto agli stati la possibilità di porre limitazioni “se strettamente necessarie”. Gli investimenti, intanto, non si fermano: negli ultimi giorni Uber ha ottenuto un finanziamento di 3,5 miliardi di dollari da parte del fondo sovrano dell’Arabia Saudita. Anche la concorrenza si fa più spietata, specie quella che nasce nei paesi emergenti. Alla compagnia di trasporto privato con sede a San Francisco si è affiancata da qualche tempo Didi, società cinese di prenotazione di taxi. A guidarla è Jean Liu, con un passato a Goldman Sachs, tempio della finanza americana, e figlia unica di Liu Chuanzhi, fondatore di Lenovo. Una figlia della nomenklatura, insomma.
Ma che non aveva nulla da spartire con i figli eccellenti dei big del Partito, raccomandati assunti dalle banche d’affari degli Stati Uniti per entrare nelle grazie dei ministeri, tra una cena d’affari e un weekend a Macau. Miss Liu, al contrario, si è data da fare fin da subito per dimostrarsi all’altezza dei suoi idoli, a partire da Bill Gates che, dice lei, ha avuto più influenza del suo papà per spingerla verso l’informatica. E’ lei la donna manager che lo scorso 16 maggio è comparsa al fianco di Tim Cook, numero uno di Apple, all’ingresso dell’immenso shop della Mela nel cuore di Pechino, per festeggiare il big deal, l’acquisto per un miliardo di dollari da parte di Apple di una quota di Didi Chuxing, l’app che ha prima replicato e poi surclassato le performance di Uber nel territorio del Drago. “Didi conta 14 milioni di autisti e 300 milioni di utenti. Anzi, 300 milioni più uno perché da oggi ci sono anch’io, vero Jean?”, ha commentato Cook rivolgendosi alla manager cinese, che da 2013 guida Didi da un successo all’altro, in una progressione da capogiro: la valutazione della società è salita in questi anni di cinque volte, da 4 a 20 miliardi di dollari, ma, secondo gli analisti, Didi Kuaidi può salire ad almeno 25 miliardi dollari l’anno prossimo in vista di una possibile quotazione a Wall Street.
Jean Liu, presidente di Didi
Una corazzata, arrivata in 400 città, che riunisce i personaggi più in vista della new economy cinese, perché la dolce Jean ha convinto Jack Ma (il patron di Alibaba) e Ma Huateng (fondatore della compagnia internet Tencent) a entrare in società. Insomma, un direttorio a quattro punte (ne fa parte anche il fondatore di Didi, Cheng Wei), che guida il fronte degli innovatori dell’economia cinese, un po’ amati un po’ “vigilati speciali” nell’attuale fase di transizione degli equilibri del business. “In realtà – spiega Jean Liu – il nostro governo è più aperto di altri all’innovazione. Per questo credo che noi e Apple faremo assieme un bel pezzo di strada”. L’importante è che la Mela capisca che, per fare affari sotto la Grande muraglia, bisogna sì essere trasparenti, ma il governo può attingere quando vuole le informazioni desiderate nell’immenso database con cui si controllano i 4 milioni di spostamenti quotidiani dei cinesi.
A spiegare i segreti della Città proibita ci penserà Jean, la volontà di ferro sotto uno sguardo da ragazzina, sopravvissuta alla dura disciplina di Goldman Sachs e che non si ferma davanti a niente. Come è successo a settembre, quando le è stato diagnosticato un tumore al seno. “Il cancro non mi cambierà la vita, né sul lavoro né fuori”, ha scritto allora nell’e-mail in cui ha comunicato la novità ai collaboratori. E’ stata di parola. Due mesi dopo ha ripreso i ritmi di sempre: al lavoro dalle nove del mattino fino alle otto di sera, due ore di pausa per stare assieme all’unica figlia. E poi di nuovo in riunione, fino a tarda notte. Per la disperazione dei tassisti di Cina e non solo.