Soldi gratis? No, grazie
Roma. Le strade che hanno portato al successo grillino nella capitale d’Italia – e non altrove, comunque – sono forse infinite. Tuttavia non si può fare a meno di notare che la candidata del Movimento 5 stelle, Virginia Raggi, iniziò la sua campagna elettorale lo scorso febbraio elogiando il “reddito di cittadinanza, un obiettivo sia locale sia nazionale”, continuò sostenendo che l’inefficiente e appesantita macchina amministrativa capitolina si cura con semplici iniezioni di “legalità” (“molti dipendenti sono con noi perché sono onesti”), e ha concluso definendo l’Atac – società municipalizzata del trasporto pubblico che da sola è all’origine di metà di tutto il debito nazionale delle partecipate dello stesso settore – come “un fiore all’occhiello della città”. Domenica, esattamente nelle stesse ore in cui la Raggi stregava il 35,2 per cento dei romani che si recavano alle urne, in Svizzera il 77 per cento dei cittadini bocciava “il sogno marxista”, come l’ha chiamato ieri il Manifesto: la maggioranza dei votanti ha detto “no” alla proposta di pagare d’ora in poi un certo ammontare, indicativamente 2.500 franchi, a tutti i residenti della piccola Repubblica, ogni mese e senza alcuna condizione.
I circa 2.260 euro sarebbero dunque stati ricevuti sia dai lavoratori sia dai disoccupati, sia dagli indigenti sia dai milionari, con una piccola aggiunta per chi avesse dei figli a carico. In estrema sintesi, insomma, alla domanda se volessero ricevere un bel po’ di soldi gratis dallo stato, gli elettori elvetici hanno risposto con un sonoro: “No, grazie”. Sempre domenica, come per essere certi di bloccare a Chiasso ogni parvenza di grillismo economico, gli svizzeri hanno detto “no” a un altro quesito referendario che avrebbe impedito alle grandi società partecipate dallo stato, come Swisscom (telefonia) e Swiss Post (servizi postali), di ricavare profitti dal loro operato, e allo stesso tempo avrebbe imposto un tetto agli stipendi dei dirigenti di quei gruppi. Il governo in carica aveva chiesto ai cittadini di stare alla larga da queste proposte così allettanti – apparentemente munifiche per le proprie tasche e punitive per le tasche altrui – e gli svizzeri hanno pensato bene di seguire il consiglio.
Se la Svizzera non è terreno fertile per grillismi vari, lo si deve a varie ragioni. Tradizione, storia e istituzioni referendarie contano. Poi c’è un certo buon senso diffuso nel paese quando si tratta di mettere mano ai conti pubblici (leggi: soldi dei contribuenti). Soprattutto, pesa lo stile di governo con cui si sceglie di rispondere a una crisi innegabile dei sistemi di welfare pubblico in occidente, sballottati tra robotizzazione futura del lavoro e afflusso presente di immigrati: è meglio una rivoluzione completa qui e ora, pianificata da qualche politico o pensatore illuminato, oppure è più saggio – per citare Karl Popper – “lavorare sulle cose saltuariamente o a spizzico”? Questa seconda strada è quella indicata dagli elettori svizzeri con il voto di domenica. Vediamo perché.
I promotori del referendum sul “reddito di base incondizionato” hanno raccolto 126.000 firme in poco più di un anno per modificare la Costituzione e delegare poi al governo la stesura dei dettagli su ammontare e funzionamento del sussidio. L’aspetto fondamentale, sostenevano, era che questo “reddito di base incondizionato” fosse sufficiente a coprire alcuni “bisogni fondamentali”: cibo, casa, assicurazione sulla salute, abbigliamento, uso dei trasporti pubblici, partecipazione alla vita sociale. Ecco perché sarebbe logico, secondo il comitato promotore del referendum, assegnare ogni mese 2.261 euro a ciascun cittadino svizzero: “Le persone non cercheranno più un impiego perché devono sopravvivere, ma perché nessuno desidera accontentarsi di sopravvivere. Potranno così negoziare le loro condizioni di lavoro per soddisfare le loro comodità, più che i loro bisogni vitali. Le condizioni di lavoro miglioreranno per motivare le persone, che già avranno una base di reddito, a impegnarsi di più. I primi potranno più facilmente negoziare condizioni di lavoro migliori a tempo parziale, se desiderano, e gli altri potranno ottenere un lavoro più facilmente. Dal canto loro, le imprese saranno sollevate dalla responsabilità di far vivere le persone. Saranno incoraggiate ad automatizzare i compiti più ripetitivi e meno attraenti”. Gli stessi promotori hanno richiamato le origini “utopiche” della misura, che si fanno risalire comunemente a Thomas Paine, rivoluzionario anglo-americano vissuto tra il 1737 e il 1809, che proponeva di “creare un fondo nazionale per pagare, a tutti gli individui che avranno raggiunto l’età di ventuno anni, la somma di quindici lire sterline, a titolo di indennità del diritto naturale, di cui il sistema delle proprietà territoriali li ha spogliati; e nel versare annualmente la somma di dieci lire sterline, per la durata della loro vita, a tutti gli individui che hanno raggiunto l’età di ciquant’anni, e agli altri, quando arriveranno a questa età”. Questi pagamenti, scriveva Paine nel 1796, avrebbero dovuto essere concessi “a tutti gli individui, poveri e ricchi”, perché “tutti gli individui vi hanno pari diritto, indipendentemente dalle proprietà che possono aver creato o acquisito per eredità o in ogni altra maniera”.
Tra i fautori elvetici di un aggiornamento del pensiero di Paine c’era la sinistra più estrema, certo, ma anche economisti quotati come Sergio Rossi dell’Università di Friburgo, e imprenditori un po’ fricchettoni come Daniel Hani. L’Economist, questa settimana, ha dedicato un approfondimento al reddito di cittadinanza, sottolineando proprio il curriculum sorprendente di certi suoi nuovi sponsor: “Alcune delle personalità che oggi sono responsabili dei principali cambiamenti tecnologici – ha scritto il settimanale inglese – vedono nel reddito universale di base un modo per assicurare di che vivere a tutti in un mondo fatto di robot e intelligenza artificiale. Finché un certo tasso di distruzione creatrice rimane parte del loro business model, questa forma di beneficenza è anche un modo per neutralizzare le proteste rispetto alla distruzione che causeranno”. Così si spiega il “sì” al reddito di cittadinanza di personaggi come Albert Wenger, partner di Union Squares Ventures, una società di venture capital; o come Sam Altman, fondatore di Y Combinator, incubatore di startup, che si batte per un’elargizione mensile di 1.000-2.000 dollari al mese a Oakland in California e dice: “Tra cinquant’anni ci apparirà ridicolo il fatto che in passato usavamo la paura di non essere in grado di mettere qualcosa in tavola come motivazione per convincere le persone a lavorare”. Anche perché già oggi, per dire, la catena di fast food Pizza Hut ha annunciato che entro la fine dell’anno i tavoli dei suoi ristoranti saranno serviti da piccoli robot antropomorfi di nome “Pepper”. Più in generale, un famoso studio di Carl Frey e Michael Osborne, dell’Università di Oxford, avverte che nel giro di vent’anni quasi la metà degli americani lavorerà in settori in cui l’automazione sarebbe in grado di sostituirli.
Riccardo Ruggeri è svizzero d’adozione, già manager di Fiat, ora editorialista del quotidiano Italia Oggi, e vede proprio in questo inusuale schieramento di guru della Silicon Valley e affini uno dei principali motivi del gran rifiuto dei cittadini svizzeri di fronte a quella che altrimenti apparirebbe come una manna dal cielo: “Il modello di para-capitalismo connaturato a quello che chiamo ceo-capitalism prevede una concentrazione di potere economico e politico in alcune simil ‘sette’ californiane, con annesso aumento di instabilità personale e diseguaglianza di reddito tra i cittadini comuni – dice al Foglio – Davanti a questo scenario, il reddito di base incondizionato è uscito dalla nicchia delle idee della sinistra radicale ed è stato abbracciato da molti capitalisti in giro per il mondo, compresi i ‘Soros’ svizzeri, proprio per la sua capacità di tranquillizzare la popolazione”. E i cittadini non sognano forse d’essere più tranquilli? “Dubito che il 77 per cento degli svizzeri sia stato mosso da chissà quale raffinato ragionamento sulle conseguenze della misura. Certo è che gli svizzeri, complice la loro origine rural-montanara, tra etica del lavoro e un po’ di cultura del sospetto, hanno fiutato uno scenario in cui sarebbero divenuti simili a degli zombi, cioè dei consumatori prim’ancora che dei cittadini, perdipiù alle dipendenze dello stato”.
Alberto Siccardi, imprenditore svizzero di origini italiane che opera nel Ticino, aggiunge: “Qui i cittadini sono scettici verso ogni forma spinta di welfarismo pubblico. Questo è il paese della Croce Rossa e dei sussidi generosi per i rifugiati riconosciuti come tali. Tuttavia c’è una tradizione di serietà, applicata all’economia, che sconfina a volte nell’egoismo e che non ritiene accettabile nessuna regalìa per chi non lavora sodo. Gli attacchi a questa forma di ethos nazionale non mancano, ma finora sono stati respinti con forza”. La scarsa fattibilità economica della proposta votata domenica dunque non ha aiutato. Sarà bene ricordare che per “reddito di cittadinanza” si intende infatti una forma di reddito garantito universale e assoluto, erogato dallo stato a prescindere dalla situazione di bisogno delle persone. In Italia, Beppe Grillo e Virginia Raggi hanno parlato spesso di “reddito di cittadinanza”, ma in realtà la loro proposta di legge attualmente depositata in Parlamento è quella di un “reddito minimo garantito”, quindi un sostegno attribuito dallo stato una volta però che siano rispettate certe precise condizioni. In questa categoria rientra per esempio il sussidio Hartz IV, di circa 400 euro al mese, che con le spese di affitto e riscaldamento e i contributi sociali arriva a circa 750 euro (senza contare i bonus per ciascun figlio), e viene erogato a persone tra i 15 e i 67 anni che siano ritenute in grado di lavorare ma temporaneamente impossibilitate a farlo, che continuino a cercarlo e che non rifiutino le proposte di lavoro loro offerte dall’Agenzia federale del lavoro.
Quanto sarebbe costata la proposta svizzera, che perfino i grillini sostengono solo nominalmente? Per stessa ammissione dei promotori, circa 208 miliardi di franchi all’anno, cioè un terzo del bilancio pubblico svizzero. 128 miliardi sarebbero stati reperiti in quanto “parte del prodotto dell’attività economica equivalente al reddito di base delle persone attive”, una formula un po’ contorta che fa scricchiolare la “universalità” del sussidio; altri 62 miliardi sarebbero stati reperiti cancellando alcune elargizioni del welfare state; infine 18 miliardi sarebbero comunque stati da recuperare con nuove tasse. In Italia, uno schema simile, seppure meno generoso, avrebbe costi proibitivi: proprio lo scorso fine settimana Ignazio Visco, il governatore della Banca d’Italia, riferendosi all’ipotesi universalistica del reddito di cittadinanza, ha detto che “se dessimo 500 euro per 12 mesi a ogni cittadino, il totale dell’esborso sarebbe pari al 20 per cento del pil, e questo è impossibile. Non è quindi questa la risposta dal punto di vista finanziario”. Scenari simili sono replicabili per ogni paese sviluppato. Ipotizziamo che gli Stati Uniti decidessero di garantire 10.000 dollari l’anno a ciascuno dei propri cittadini; Washington potrebbe permetterselo soltanto se iniziasse a tassare almeno quanto la Germania (l’ammontare di imposte dovrebbe arrivare al 35 per cento del pil, dall’attuale 26 per cento) e se cancellasse tutti gli altri programmi di welfare come le pensioni (ma non la Sanità). Quando scende una manna dal cielo, insomma, le tasche dei contribuenti non rimangono mai illese. Tuttavia “Mens sana in conti pubblici sani” è ancora oggi la convinzione profonda della maggioranza degli svizzeri.
Secondo altri osservatori, tanta prudenza sarebbe in realtà figlia di un ragionamento più cinico: “La maggioranza degli svizzeri non è allarmata dall’idea che un reddito di base incondizionato possa disincentivare le persone dalla ricerca di un lavoro, trasformando il paese in una distopia marxista – ha scritto ieri Max Bearak sul Washington Post – Il timore è che un assegno da 2.261 euro al mese renderebbe il paese troppo attraente per gli immigrati economici”. Vanno in questa direzione prese di posizione come quella del parlamentare conservatore Luzi Stamm che, intervistato dalla Bbc alla vigilia del voto, aveva illustrato così il suo ragionamento: “Teoricamente, se la Svizzera fosse un’isola, voterei sì. Ma con i confini aperti, questa proposta diviene totalmente impraticabile, specie per un paese con un elevato standard di vita come il nostro”. L’Economist, in un suo editoriale di questa settimana che introduce il dossier sul tema, concorda: “Un reddito di cittadinanza universale renderebbe quasi impossibile per paesi con i confini aperti. Il diritto a un reddito incoraggerebbe i governi dei paesi abbienti a chiudere i propri confini agli immigrati, oppure a creare cittadini di seconda classe senza accesso al sostegno pubblico”.
Su una cosa, probabilmente, i promotori del referendum hanno ragione. Sarà difficile, dopo il voto di domenica, ricacciare il genio nella lampada. Perché, pure al di fuori dei confini svizzeri, la riflessione sul reddito universale di cittadinanza si incrocia – come si è visto – con il tentativo obbligato di puntellare un welfare state che mostra troppe crepe, oggi o in prospettiva che sia. Soltanto così si spiega, tra le altre cose, un terzo filone di sostenitori del reddito di cittadinanza che non ti aspetteresti: un manipolo di economisti liberisti.
In origine fu, come è noto, Milton Friedman, con la sua “imposta negativa sul reddito” suggerita per la prima volta dal premio Nobel nel 1962 e citata dagli stessi organizzatori del referendum svizzero. Ieri poi, sul Wall Street Journal, anche Charles Murray, W. H. Brady Scholar presso il think tank conservatore American Enterprise Institute, ha annunciato una riedizione del suo libro pubblicato per la prima volta nel 2006: “Nelle nostre mani. Un piano per rimpiazzare il welfare state”. La sua tesi è che un assegno annuale per ogni adulto con il passaporto americano sia il modo migliore per combattere la disoccupazione e far rivivere una certa cultura civica. “C’è un grande caveat: sostengo che il reddito di cittadinanza avrà effetti positivi soltanto se rimpiazzerà tutti gli altri trasferimenti fiscali da parte dello stato e se comporterà il superamento delle burocrazie che sovrintendono a questi trasferimenti. Se invece il reddito di cittadinanza si andasse a sommare al sistema in essere, allora avrebbe tutti gli effetti distruttivi che sono temuti dai suoi detrattori”. Addio dunque Social security (pensioni), Medicare e Medicaid (sanità pubblica), food stamps (aiuti alimentari) sussidi per gli acquisti immobiliari e altre forme di sostegno per le donne single o via dicendo. Premesso ciò, ogni cittadino americano che abbia superato i 21 anni d’età dovrà ricevere 13.000 dollari l’anno direttamente sul suo conto bancario, con 3.000 dollari da indirizzare obbligatoriamente in un’assicurazione sanitaria.
Se la preoccupazione è che un tale schema scoraggerebbe la partecipazione al mercato del lavoro, Murray sul Wall Street Journal risponde che già oggi il 18 per cento degli uomini non sposati e il 23 per cento delle donne non sposate di una età compresa tra i 25 e i 54 anni nemmeno cerca lavoro. Difficile che con il reddito di cittadinanza la situazione possa peggiorare. Gli esempi citati dallo studioso sono molteplici, ma il punto centrale è uno: invece di far gestire le forme di aiuto pubblico destinate ai cittadini a una burocrazia sempre più nutrita e imbolsita, incapace di fronteggiare sfide cangianti (dal lavoro uberizzato alle pensioni di paesi che invecchiano a vista d’occhio), meglio un trasferimento diretto di risorse agli individui che, nel bene e nel male, decideranno come gestirle. Non sarebbe dunque il paese della Cuccagna ipotizzato dai grillini, ma una scommessa per ciascuno di noi.