Ronald Reagan con Margaret Thatcher

"E' tutta colpa del..."

La notizia della morte del neoliberismo è fortemente esagerata

Luciano Capone
“E’ tutta colpa del neoliberismo: ora lo dice persino il Fondo monetario internazionale (Fmi), la cattedrale che custodisce i dogmi del pensiero unico liberista”.

Roma. “E’ tutta colpa del neoliberismo: ora lo dice persino il Fondo monetario internazionale (Fmi), la cattedrale che custodisce i dogmi del pensiero unico liberista”. Più o meno di questo tenore sono stati i commenti di gran parte dei giornali italiani e internazionali a uno studio pubblicato sul numero di giugno della rivista Finance and Development del Fmi – scritto da Jonathan Ostry, vicedirettore del dipartimento di Ricerca, Prakash Loungani e Davide Furceri – che ha attirato l’attenzione dei media per il suo titolo ambiguo (rispetto al contenuto) e ammiccante: “Neoliberismo: è stato sopravvalutato?”. Gli autori sostengono che “invece di produrre crescita, alcune politiche neoliberiste hanno aumentato le diseguaglianze, compromettendo un’espansione duratura”. Nello specifico, i punti dell’“agenda neoliberale” finiti sotto la lente d’ingrandimento sono due: la liberalizzazione dei movimenti di capitali e le politiche di consolidamento fiscale, più comunemente riunite sotto il termine “austerity”. Nel primo caso i ricercatori del Fondo sostengono che la libera circolazione dei capitali e la deregulation finanziaria se da un lato permettono il trasferimento nei paesi più poveri di tecnologia e capitale umano, dall’altro quando gli investimenti esteri sono di breve termine aumentano la volatilità ed espongono i paesi a più frequenti crisi finanziarie.

 

Quanto al tema tanto dibattuto dell’austerità e della riduzione del perimetro statale, gli economisti sostengono che se è vero che l’elevato debito pubblico è negativo per la crescita economica e i paesi hanno bisogno di mettere un po’ di fieno in cascina per poter affrontare le crisi future, non è detto che tutti i paesi debbano fare austerity, perché ridurre la spesa e/o aumentare le tasse per alleggerire il peso del debito in certi casi non ripaga i benefici. In pratica per molti paesi, quelli che possono permetterselo, è meglio convivere con un debito più alto piuttosto che fare sacrifici per ridurlo. Questo è bastato per far montare la caciara mediatica sui danni provocati da 30 anni di neoliberismo, Ronald Reagan, Margaret Thatcher, la distruzione dello stato sociale, le privatizzazioni, le diseguaglianze e tutta quella catena di parole e locuzioni che il commentatore medio tira fuori dopo aver pronunciato il termine “neoliberismo”, naturalmente proponendo il solito ventaglio di soluzioni che consistono nell’abbandono del rigore fiscale in favore di politiche “non ortodosse”, qualunque cosa esse significhino. Il clamore e la lettura sfasata dello studio di Ostry & Co., descritto come una specie di rivoluzione culturale nel Fmi o come la certificazione dall’interno della morte del liberismo, hanno costretto il capo economista del Fmi Maurice Obstfeld a una specie di smentita, che in realtà è un chiarimento: “L’articolo è stato ampiamente male interpretato, non indica un grande cambiamento nell’approccio del Fondo. Nessuno vuole un’austerità insensata. Siamo a favore di politiche fiscali che favoriscono la crescita e l’equità nel lungo periodo. I governi devono semplicemente vivere con i propri mezzi nel lungo termine, o affrontare qualche forma di default del debito, che di solito è molto costoso per i cittadini e in particolare i più poveri”. Che poi non si discosta molto dal contenuto dell’articolo in questione, visto che Ostry & Co. scrivono che la sostenibilità di debiti più elevati si riferisce a paesi come la Germania, il Regno Unito e gli Stati Uniti, mentre c’è poco da discutere “dei paesi (come quelli dell’Europa meridionale) che non hanno altra scelta che impegnarsi nel consolidamento fiscale, dal momento che i mercati non gli permetterebbero di continuare a indebitarsi”. Insomma per noi niente illusioni “eterodosse”, non c’è alternativa all’austerity (o meglio, le alternative sarebbero peggiori). Inoltre nello stesso studio i nuovi eroi del fronte anti liberista affermano che “c’è molto da elogiare dell’agenda neoliberale. L’espansione del commercio mondiale ha liberato milioni di persone dalla povertà estrema. Gli investimenti diretti esteri sono spesso stati un modo per trasferire tecnologia e conoscenza alle economie in via di sviluppo. La privatizzazione di imprese statali ha spesso portato a un’offerta più efficiente dei servizi e a una riduzione del carico fiscale sui governi”. In pratica, a parte la critica ai due punti oggetto dello studio, viene salvata e lodata gran parte dell’“agenda neoliberale”.

 

Non si capisce quindi la scelta nel titolo del termine “neoliberismo”, che è carico di significati politici e si presta a mille fraintendimenti proprio da parte di chi l’usa continuamente e a sproposito. O probabilmente l’obiettivo dell’articolo era proprio quello di creare un caso politico-mediatico, visto che non contiene considerazioni particolarmente nuove o rivoluzionarie. Lo scorso anno lo stesso autore, Ostry, aveva pubblicato sempre per il Fmi uno studio più ampio in cui venivano riportate le stesse osservazioni, seppure con un titolo più neutro: “Quando il debito pubblico deve essere ridotto?”. In quello studio Ostry e colleghi approfondivano la questione, indicando – in base al livello di sostenibilità del debito – i paesi della zona verde che hanno un ampio spazio fiscale prima del default e quindi possono permettersi di incrementare il debito, quelli della zona gialla che hanno un margine ridotto e potenziali rischi sul debito e quelli della zona rossa che non hanno più spazio fiscale e devono abbattere il debito (fare austerity) per affrontare possibili choc futuri. Per la cronaca, se lo spazio fiscale della Norvegia sarebbe addirittura di 246 punti di pil, della Germania di 168 e del Regno Unito di 132, quello dell’Italia è pari a zero, come Grecia e Cipro. Andando oltre il titolo, se questo studio ha qualcosa da indicare all’Italia è la conferma che quella sul livello di sostenibilità del debito è una discussione che non ci riguarda, perché persino chi è favorevole a debiti pubblici elevati dice che il nostro lo è troppo.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali