Paziente europeo, cura inglese
Roma. “Mi permetto di suggerire che un’Europa piegata e demoralizzata al di là della Manica, in mancanza dell’influenza di questo paese, costituirebbe un pericolo molto maggiore per il nostro futuro – oltre che in generale per il complessivo equilibrio di poteri e per l’equilibrio del mondo occidentale – rispetto al pericolo che correremmo sopportando ancora intromissioni inutili e fastidiose da parte di Bruxelles”. Nelle motivazioni anti Brexit di Lord Bramall, ex capo della Difesa di Sua Maestà e veterano della Seconda guerra mondiale, c’è un punto di vista originale, finora poco discusso in Italia, sulle conseguenze di lungo termine del referendum con cui domani gli inglesi decideranno se rimanere o meno nell’Unione europea. I mercati, nel medio periodo, si adattano a tutto, d’altronde è il loro mestiere. E un paese con 65 milioni di abitanti e 650 parlamentari eletti con l’uninominale, attrezzato di imprenditori, voglia di lavorare e di consumare (inclusi 89 miliardi di euro di beni tedeschi solo nel 2015), dotato di testate atomiche e di una relazione speciale con gli Stati Uniti, non si trasformerà certo in una Somalia. Parafrasando Lord Bramall, insomma, può tornare utile ribaltare le prospettive dominanti e riflettere almeno in queste ore se l’Europa continentale non sia il paziente e il Regno Unito invece il medico che – ahinoi – rischia di allontanarsi un po’.
Provate a ragionare di tutto ciò a un aperitivo d’establishment brussellese, se vi va bene sarete accolti da risatine. La vulgata lì è un’altra: uscita Londra e dimenticati tutti i suoi distinguo, “I want my money back” in su e in giù – giurano i professionisti dell’europeismo – l’integrazione europea ce la facciamo più stretta e funzionale. E’ la tesi, rispettabile oltre che ottimista, dei Romano Prodi, condita da sbotti di fastidio come quelli di Mario Monti (“Cameron distrugge la paziente opera di tessitura di una generazione di europei”). Tuttavia, allargando un po’ le frequentazioni, i timori sono di altro tipo. Un politico tedesco di rango, a condizione di rimanere anonimo, ha sintetizzato così le sue preoccupazioni al Financial Times: “Se il Regno Unito lascia l’Ue, sarebbe un disastro per il Regno Unito. E una catastrofe per la Germania”. Ragioni d’equilibrio diplomatico, innanzitutto: il quotidiano americano Wall Street Journal, sostenendo ieri in un editoriale che “un Continente in difficoltà ha più bisogno del Regno Unito di quanto non sia vero il contrario”, ha precisato infatti che “l’interesse degli Stati Uniti in un’Europa libera e prospera è garantito al meglio con la Gran Bretagna all’interno dell’Ue, a bilanciare Francia e Germania”. A Parigi sottoscriverebbero il passaggio sul ruolo equilibratore di Londra: in Francia infatti ricordano che Helmut Kohl ripeteva di volere una Germania europea e non un’Europa tedesca, ma lo ricordano solo nelle occasioni ufficiali; per il resto, da Marine Le Pen a François Hollande, è tutto un agitarsi contro la cripto-dominazione tedesca.
A parti invertite, in Germania c’è chi scruta Parigi e teme il distacco di Londra. Così il rigorosissimo Hans-Werner Sinn, sul Corriere della Sera, ha scritto che “se la Gran Bretagna uscisse, l’Europa si trasformerebbe in una fortezza che limita il libero scambio con il resto del mondo e isola le proprie industrie dalla concorrenza globale, con dazi e barriere commerciali, a scapito delle persone. L’Ue cercherebbe la propria salvezza in una crescente statalizzazione, secondo il modello francese, avviandosi verso una lunga stagnazione”. Scenario affatto strampalato. Parigi, proprio in questi giorni, è tutta avvitata sul proprio ombelico: oltre alle barricate in piazza per una riforma del lavoro molto meno radicale del Jobs Act italiano, va in scena la cosiddetta “solférinologie” in cui indugia il presidente Hollande, cioè la passione per le battaglie interne al Partito socialista domiciliato a Rue de Solférino, incarnata dall’idea pazza di organizzare delle primarie cui parteciperà perfino il presidente in carica. Il tutto mentre il sindaco di Parigi mette i bastoni tra le ruote ai postini troppo celeri di Amazon e la California per contrappasso diventa la sesta economia mondiale scalzando da sola proprio la Francia. Diplomazia, dunque, ma anche economia. In un colpo solo, con la Brexit, perderemmo come europei la sponda vitale offerta a Mario Draghi dalla Bank of England, quando per esempio si è trattato di sdoganare il Quantitative easing o i derivati. Ma anche quel sostegno vigoroso che perfino la leadership non titanica di Cameron ha garantito alla liberalizzazione del mercato interno dell’Ue e alla promozione del commercio mondiale (leggi: Ttip con gli Stati Uniti). Al paziente europeo, volente o nolente, serve ancora una terapia inglese. Perciò c’è da sperare che Londra non stacchi la spina.