Brexit o non Brexit
C'è una lezione inglese sullo shale gas che gli pseudo-ambientalisti italiani dovrebbero studiare
Roma. Le verdi brughiere e le vallate del parco di North York Moors (contea inglese del North Yorkshire) sono diventate l'epicentro di un nuovo fronte legato alla battaglia per la Brexit, quello energetico. Lì, solo qualche giorno fa, le autorità della contea hanno autorizzato il primo progetto di estrazione dello shale gas (gas di scisto) attraverso la tecnica della fratturazione idraulica, il fracking, dopo cinque anni di moratoria delle trivellazioni. Una scelta che ha acceso vivaci polemiche delle associazioni ambientaliste e ha alimentato il dibattito sul referendum.
Come emerge dai dati dell'associazione delle industrie di settore Oil & Gas Uk, con il cheap oil petrolio in un solo anno sono stati persi quasi ottomila posti di lavoro nell'industria petrolifera del Mare del Nord e cento venti mila nell'intera economia. Il Regno Unito conquista ora la possibilità di fare nascere un settore da migliaia di posti di lavoro, checché ne dicano gli oramai folkloristici movimenti ambientalisti inglesi. Una lezione che vale anche per gli pseudoambientalisti italiani che sono stati sconfitti al referendum sulle trivellazioni a mare in aprile. Ma quali sono i pro e i contro della Brexit energetica?
L'industria britannica, le associazioni dei lavoratori delle trivelle e i governi locali parlano dei progetti come quelli di North York Moors come un'opportunità per riaffermare l'indipendenza energetica dell'isola da una Europa che imbriglia sempre di più investimenti e posti di lavoro. Paladino di questa battaglia è diventato il mattatore della Brexit, Boris Johnson, "no stone should be left unfracked”, va ripetendo l'ex sindaco di Londra. Lasciare l'Ue darebbe al Regno Unito la possibilità di interrompere una relazione in campo energetico dove gli svantaggi superano i vantaggi, sostengono dalla lobby pro-Brexit, Business for Britain. Per la lobby: "Se parliamo solo del fracking ci sono ben quindici norme Ue, tra direttive e regolamenti, più in generale l'80 per cento della legislazione britannica in tema ambientale viene da Bruxelles, il diritto comunitario nel settore energetico costerà al contribuente di Sua Maestà circa 149 di sterline all'anno da qui al 2020".
La crisi legata al basso prezzo del petrolio ha messo in ginocchio l'industria estrattiva del Regno Unito, anche se, per i sostenitori della Brexit, come l'ex cancelliere dello scacchiere Nigel Lawson, le greppie brusselesi mosse dalla farraginosa macchina degli eurocrati non hanno certamente aiutato. Ad Aberdeen, la 'capitale' del distretto del Brent, Keith Brown, il ministro all'Economia del governo semiautonomo guidato dallo Scottish National Party, ha agitato lo spettro della crisi delle forniture di gas con la Russia per chiedere al governo centrale più risorse economiche per le esplorazioni offshore.
La sicurezza degli approvvigionamenti è l'altro grimaldello con cui i sostenitori del leave giocano la loro partita, dal clima di guerra fredda tra l'Ue e Mosca, all'instabilità geopolitica della Libia la Brexit è l'occasione per raggiungere lo 'scenario norvegese': completa indipendenza dalla politica energetica europea, pieno sfruttamento delle proprie risorse e creazione di un baazoka finanziario (come veicolo un fondo sovrano) alimentato dalle rendite sullo shale gas, idea lanciata da George Osborne già due anni fa. Sul versante opposto, i difensori del remain, a partire dal premier inglese Cameron, agitano lo spettro del baratro energetico, sostenuti da report allarmistici come quello recente pubblicato da Chatam House secondo cui, tutti e cinque i modelli economici della Brexit minano l'influenza del ruolo di Londra nel contesto energetico internazionale, una posizione che impedirà al governo britannico di definire le future politiche come l'importante pacchetto per l'Unione energetica.
Secondo Michael Grubb, professore di politiche energetiche internazionali presso l'University College of London, le conseguenze sono ben più complesse. Se sul versante delle forniture di gas, la situazione è di fatto meno pericolosa perché la Gran Bretagna importa più della metà del fabbisogno da aree extra-Ue come la Norvegia e i paesi del Golfo, sul fronte elettrico Londra potrebbe soffrire la scarsa mancanza di interconnessioni con il vecchio continente e un crollo degli investimenti sulle rinnovabili. Ma è chiaro che se la Brexit energetica dovesse avverarsi per gli inglesi questa sarebbe una ghiotta occasione per far nascere un vero nuovo hub energetico del Commonwealth.