Brexit e scappa

Alberto Brambilla
Panico dei mercati con cali da record. Milano flop. I banchieri centrali non stabiliscono la quiete

Roma. L’insidacabile verdetto dei votanti inglesi va in senso opposto agli auspici esternati dall’establishment economico e rappresenta un colpo al progetto unitario europeo. I mercati finanziari globali hanno reagito in modo convulso all’avverarsi della Brexit che era l’esito considerato  meno probabile dai broker alla vigilia di un voto sul quale ha prevalso il tema dell’immigrazione anziché i temi economici. Gli operatori presi in contropiede sono corsi ai ripari tra coperture, acquisti di beni rifugio, come l’oro, e vendite pesanti di azioni in un clima di acuta volatilità. La fibrillazione è iniziata dopo mezzanotte quando in Sunderland, un distretto industriale del nord Inghilterra, il “leave” ha vinto con margine. La sterlina è stata la prima vittima: ha perso il 10 per cento contro le principali valute, ai minimi dal 1985, un collasso che per ampiezza e rapidità ha superato quello del mercoledì nero del settembre 1992. Le agenzie di rating Standard & Poor’s e Fitch meditano se strappare il blasone della tripla A a Londra. La reazione emotiva ha portato i listini europei ha cedere in apertura il 10 per cento in media: flessione vista prima solo in due episodi nell’ottobre 2008 all’apice della crisi Lehman. La Banca centrale inglese e quella europea hanno tentato di rassicurare gli investitori parlando di piani di contenimento dello choc senza anticipare revisioni della politica monetaria. Le Borse europee sono state punite (EuroStoxx 600 -8,6 per cento, peggior calo storico) quelle periferiche in particolare (Madrid -12,3, Atene -13,4, Milano -12,4, crollo giornaliero record). Titoli bancari sotto grave stress. La Borsa di Londra ha contenuto il calo (-3,15) ma le conseguenze per il Regno Unito sono grame. Moody’s dice che se l’economia europea può contrarsi d’un punto, quella inglese di 4. Una valuta debole e l’economia fiacca potranno spingere le imprese inglesi a disinvestire e tagliare gli organici.

 

I banchieri contattati dal Foglio sono perplessi. Il perché lo spiega l’avvocato d’affari Massimiliano Danusso, managing partner della sede di Londra di BonelliErede. Un’uscita del Regno Unito avverrà tra almeno due anni ma ci si chiede come e dove si negozieranno i contratti, dai derivati alle obbligazioni, che nel mercato mondiale della finanza sono regolati per il 90 per cento  da legge inglese con una clausola di giurisdizione esclusiva di corte britannica. “D’ora in poi ogni volta che si negozia un contratto finanziario, la clausola di giurisdizione inglese non è più ovvia. Da oggi – dice Danusso – cercherò di negoziare un contratto per banche o società di capitali retto da altra legge, sebbene con difficoltà”. Al di là dei risvolti legali la principale preoccupazione delle autorità monetarie e politiche è stata cercare di moderare eccessi di panico. Il governo italiano e quello spagnolo – i cui titoli di stato hanno aumentato il differenziale verso i titoli tedeschi – hanno lanciato segnali distensivi al mercato. Il Comitato della salvaguardia della stabilità finanziaria, organo presieduto dal ministro dell’Economia affiancato da Consob e Bankitalia, dice che la Brexit avrà “effetti limitati sull’economia reale italiana”. La situazione incerta della finanza pubblica, la ristruttrazione in fieri del sistema bancario e criticità croniche fanno tuttavia dell’Italia “un vaso di coccio, anche se certo è non l’unico”, dice Andrea Goldstein di Nomisma.

 

“L’esposizione al mercato inglese in termini di esportazioni non è alta (5-6 per cento) ma alcune situazioni sono delicate se le prospettiva di crescita inglesi si deteriorano – dice Goldstein – come nella Basilicata che beneficia delle esportazioni Fiat nel Regno Unito, nel settore vinicolo e del mobile”. A seminare incertezza è poi il rischio politico derivante da spinte secessioniste in Scozia, Irlanda o in paesi continentali e della periferia. Per l’Italia è appropriato pensarci? Enrico Cucchiani, ex ceo di Intesa Sanpaolo e già presidente di Allianz, invita a non prendere abbagli perché in molti paesi europei i cittadini sono più scontenti dei loro governi che dell’Europa. “Per noi italiani un’uscita sarebbe gravissima con costi sociali paurosi. I partiti populisti si assumono una grave responsabilità morale: la frantumazione comporterebbe il tracollo economico dei paesi membri. Per questo Renzi dice bene quando parla dell’Europa come ‘casa nostra’. Nulla è più efficace della condanna alla Brexit che arriva dalle università inglesi. Speriamo che il risultato sia uno stimolo affinché si riconosca che, in un mondo globalizzato, foriero di benessere diffuso, la disintegrazione non è una soluzione”.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.