Lo stato bussa allo sportello
Perché l'Italia non è un paese per salvataggi bancari all'americana
Roma. La via crucis in Borsa del settore bancario è proseguita anche ieri, con Monte dei Paschi di Siena (Mps) sospesa per eccesso di ribasso e che ha chiuso a meno 19 per cento, ai minimi storici. In parallelo il governo tratta con Bruxelles un intervento sul problema delle sofferenze (83,9 miliardi al netto delle coperture di capitale, 198 al lordo). Situazione ormai al limite per Mps, alla quale la Banca centrale europea ha ordinato di cedere entro il 2018 almeno 10 miliardi su 24 di crediti a rischio, resi più pericolosi dalla capitalizzazione scesa sotto il miliardo. E a fine mese saranno resi noti i nuovi stress test. Mantenendosi all’interno delle regole europee, come dice Matteo Renzi, il governo può agire sul fronte dei crediti deteriorati (il fondo Atlante, ricapitalizzato, li comprerebbe per girarli al governo a un valore a quel punto divenuto di mercato: secondo Goldman Sachs servirebbero 40 miliardi per mettere in sicurezza il sistema), oppure intervenire a spettro più ampio rafforzando le capitalizzazioni, cosa che però richiederebbe il riconoscimento da parte dell’Europa di un rischio sistemico, con relative condizionalità e vincoli come scritto dal Foglio di ieri.
Così cresce il fronte liberista che invoca un intervento simile al Tarp americano (Troubled asset relief program) lanciato nel 2008 sul finire dell’Amministrazione Bush dal segretario al Tesoro Henry “Hank” Paulson, assieme alla Federal Reserve il cui capo di New York Tim Geithner, che sarà poi ministro di Barack Obama. Paulson e Geithner imposero ai banchieri di Wall Street di emettere nuove azioni riservate al governo, a valore più basso di quelle in corso; in cambio, la ripulitura dei mutui subprime che affliggevano la finanza americana come oggi i crediti deteriorati quella italiana. Come ricordano gli economisti Luigi Zingales, Francesco Giavazzi e Alberto Alesina, il Tarp bancario, come poi quello per il settore Auto, fu un successo e non costò un penny ai contribuenti: le banche, di fatto commissariate – comprese stock option e stipendi dei top manager – fecero in fretta nel ricomprarsi le azioni governative, grazie anche alla ripresa dell’economia, e alla fine su 205 miliardi di dollari ne rientrarono nelle casse federali 221, un guadagno del 7,8 per cento in sette anni. Ma a parte obiezioni e bizantinismi europei, e la già dichiarata contrarietà qui come a Wall Street dei vertici bancari – anche loro perderebbero autonomia, dalle super-retribuzioni alla pace sindacale garantita da contratti compiacenti – la nouvelle vague populista italiana accetterebbe una soluzione simile?
Il governo Monti fece insorgere l’intero centrodestra per aver prestato, al “modico” tasso del 9,5 per cento, 4 miliardi al Mps (restituiti tranne una parte di interessi convertiti in capitale): “Ci si poteva eliminare l’Imu sulla prima casa!” fu lo slogan mediatico-politico, dimenticando che il primo prestito fu opera di Giulio Tremonti, governo del Cav. Invece la riforma renziana delle Popolari del 2015 spinse Matteo Salvini a chiamare la Lega “sulle barricate a difesa dei territori”, magari tutelati dalla Popolare di Vicenza. Grillo sul suo blog ha già messo assieme “undici regali fatti alle banche dal 2013 ad oggi”. In area Podemos-Syriza, Stefano Fassina nota che “il Pd è armai pieno di banchieri, la vera sinistra è il Papa”. E gli “amici banchieri” tornano in ballo appena se ne presenta l’occasione. Intanto l’Italia resta l’unico grande paese europeo ad applicare alle transazioni finanziarie la Tobin tax che piaceva a Chávez, nonostante i risultati flop. Le banche sono il nuovo nemico da abbattere; se però falliscono vanno risarciti azionisti e correntisti, in quanto risparmiatori. Se vengono aiutate, colpa sempre del governo di turno, comunque “amico dei banchieri”.