Lavorare di più, lavorare tutti. Appunti anti noia per Renzi
Roma. Non mancano le scelte di politica economica che il governo Renzi potrebbe prendere in considerazione per tentare di uscire dall’angolo in cui è finito, un po’ per limiti suoi e un po’ per impegno altrui, un angolo polveroso fatto di correnti interne al Pd, legge elettorale e beghe di legislatura. Di una stampella per il credito in sofferenza nemmeno serve parlarne: è la condizione minima per la sopravvivenza. Qui si ragiona piuttosto su decisioni che potrebbero svegliare dall’intorpidimento il corpaccione italiano, e il tutto a due condizioni piuttosto attraenti: costo zero e tempi brevi. Insomma, senza aspettare il treno della legge di Stabilità che passerà solo in autunno.
Esempio numero uno: se l’Europa a trazione franco-tedesca, dopo l’autoesilio degli inglesi, si scopre protezionista e pronta a gettare alle ortiche un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, allora Renzi – lo abbiamo suggerito ieri – prenda Sergio Marchionne e il ministro Carlo Calenda sotto braccio, voli con loro a Washington, e faccia capire di essere disposto a negoziare un simil-Ttip direttamente con la Casa Bianca. Poi c’è il solito ddl Concorrenza, con miliardi di euro di valore aggiunto chiusi in uno scrigno chiamato sharing economy che aspetta solo di essere schiuso tagliando lacci e lacciuoli corporativi. Terzo punto, il lavoro. Il governo non ha fatto poco, in questo campo. Basti citare il Jobs Act e il superamento definitivo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori vecchia maniera. Ieri l’Ocse, nel suo Employment Outlook, ne ha riconosciuto gli effetti positivi: “Il Jobs Act ha incentivato l’uso di contratti a tutele crescenti al posto di contratti temporanei con creazione netta di occupazione. Inoltre le nuove norme si applicano solo ai nuovi assunti e incentivano quindi le assunzioni senza distruzione di posti esistenti. Infine, il Jobs Act ha esteso la copertura dei sussidi di disoccupazione e rafforzato le politiche attive di sostegno alla ricerca del posto di lavoro che secondo i risultati dell’Employment Outlook sono importanti strumenti complementari per rafforzare gli effetti positivi delle riforme”. Così, “dopo numerosi anni di crisi, il mercato del lavoro italiano sta lentamente migliorando”. Non solo perché il tasso di disoccupazione è sceso all’11,5 per cento dal picco del 12,8 per cento, ma anche perché “il tasso di occupazione per la popolazione tra i 15 e i 74 anni ha ripreso a crescere dal 1° trimestre 2015 e si attesta ora al 49,4 per cento”. Tutto bene, quindi? Nient’affatto, visto che il tasso di occupazione italiano – cioè la percentuale di persone che effettivamente lavorano tra tutte quelle che avrebbero l’età per farlo – è al “terzo valore più basso tra i paesi Ocse dopo la Grecia e la Turchia, ed è previsto essere ancora sotto il livello pre crisi nel 2017”. Insomma, lavoriamo in pochi. Inoltre, spesso non lavoriamo nella maniera più produttiva: sia l’Ocse ieri, sia uno studio appena pubblicato dal think tank brussellese Bruegel Institute e curato dall’economista Alessio Terzi notano infatti che “la crescita della produttività è piatta da 15 anni ed è uno dei maggiori ostacoli al rilancio della crescita e dei salari in Italia”. Dipende dai lavoratori, ma soprattutto da imprenditori e sindacalisti che li ingessano. Il governo, a dire il vero, ripete da tempo di avere un rimedio: avvicinare la contrattazione collettiva al posto di lavoro, togliendo alle centrali sindacal-confindustriali il monopolio di ciò. Cosa aspetta Renzi a farlo? Nei due studi dell’Ocse e del Bruegel è un fiorire di suggerimenti pratici. Ci soffermiamo su qualcuno di questi.
La situazione della produttività è grave, ma anche seria
Scrive per esempio Alessio Terzi, autore per il think tank brussellese Bruegel Institute dello studio “An Italian job: the need for collective wage bargaining reform”: “Dalla metà degli anni 90, l’Italia è stata caratterizzata da una produttività del lavoro essenzialmente piatta, combinata con un aumento del costo del lavoro del 60 per cento in 18 anni. (…) Il risultato di ciò è che negli ultimi due decenni i costi nominali di una unità del lavoro sono cresciuti in Italia più che negli altri paesi dell’Eurozona, erodendo la profittabilità delle imprese”. Questo anche perché “l’Italia spicca come un paese che non è stato in grado di abbracciare la rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e quindi di rintuzzare le sfide poste dalla globalizzazione, come sostenuto da economisti quali Pellegrino e Zingales. Tuttavia, contemporaneamente, i costi del lavoro nel paese sono continuati a salire. Ed è interessante notare che tale tendenza non si è invertita nemmeno con l’inizio della crisi, come invece è avvenuto in Spagna e Portogallo”.
Il paradigma tedesco svela quello che è mancato ai sindacati italiani
Terzi, facendo riferimento all’Indice di centralizzazione della contrattazione collettiva compilato dall’Amsterdam institute for advanced labour studies, scrive che “Italia e Germania hanno più o meno lo stesso grado di centralizzazione della contrattazione salariale”. Un’affermazione discutibile, ma che presa alla lettera addirittura rafforza l’analisi dello studioso sul ruolo frenante dei sindacati: “La Germania, alla vigilia della crisi, è riuscita a mantenere i salari maggiormente in linea con la produttività perché i sindacati hanno scelto responsabilmente di contenere le proprie richieste di compensazione monetaria per salvaguardare la competitività del sistema paese. (…) In Italia, questo non è successo”.
Nemmeno gli imprenditori brillano per inventiva in materia di contratti
Nello studio del Bruegel Institute si osserva che, seppure in forma residuale rispetto al molto che viene stabilito in maniera centralizzata, la possibilità di stipulare contratti aziendali in Italia ci sarebbe. Se il salario variabile non è merce comune, lo si deve a due ragioni: “1) rappresenta solo una piccola parte del salario complessivo dei dipendenti; 2) solo poche aziende decidono di imbarcarsi nell’impresa di negoziare accordi a livello aziendale”. Di conseguenza “i premi di produttività sono piccoli e non ampiamente utilizzati”. Ciò è dovuto da una parte al prevalere delle piccole aziende nel nostro tessuto industriale, dall’altra agli impedimenti dell’attuale normativa sulle rappresentanze sindacali e padronali.
Sostiene l’Ocse: più la contrattazione è decentrata, meno si licenzia durante le crisi
“Decentralizzare la contrattazione collettiva e facilitare la possibilità per i datori di lavoro di fare opt-out dai livelli di contrattazione superiori in momenti di crisi potrebbe alleviare la distruzione di contratti di lavoro a breve termine che è indotta invece da riforme che introducono maggiore flessibilità in uscita”. Una contrattazione centralizzata, infatti, “potrebbe impedire aggiustamenti salariali in tempi di crisi, il che può creare problemi enormi quando sono significativi gli choc economici per specifiche imprese o interi settori. Negoziare invece a livello di settore infatti incentiva una qualche imitazione tra settori diversi, spingendo i salari verso l’alto nei momenti di boom ma ritardando il necessario aggiustamento salariale in momenti di crisi. Mentre la relativa flessibilità che è propria della contrattazione aziendale consente un collegamento migliore tra andamento dei salari e della produttività, contribuendo a salvare posti di lavoro nei momenti di crisi, ovviamente se alle imprese è consentito di utilizzare altri margini di manovra che non siano solo quelli della quantità di occupazione (come salari, orari di lavoro, condizioni di lavoro) per rispondere agli choc negativi”. L’Ocse cita il caso spagnolo: prima delle riforme del 2012 approvate dal governo conservatore di Mariano Rajoy – che hanno accresciuto la flessibilità in uscita e allo stesso tempo hanno valorizzato la contrattazione aziendale a discapito di quella nazionale – è stato calcolato che il 70 per cento delle imprese iberiche sceglieva i licenziamenti o il mancato rinnovo dei contratti a tempo determinato come prima risposta da dare a eventuali cali della domanda, contro una media del 40 per cento negli altri paesi dell’Eurozona. Dopo la riforma, invece, in Spagna è caduto di un quarto il tasso di mancato rinnovo dei contratti a termine, visto che altre vie più ottimali per l’impresa e indolori per i dipendenti potevano essere battute per rispondere alla crisi.
Liberalizzare energia, trasporti e tlc crea occupazione anche tra i “consumatori”
“Le riforme che aumentano il livello di concorrenza nei servizi a rete (industria dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni), solitamente caratterizzati dalla presenza di grandi incumbent, causano perdite non insignificanti nel breve termine, e di conseguenza l’occupazione nel settore scende sotto i livelli pre riforma almeno per per i primi tre-quattro anni. La perdita di occupazione è più marcata quando le riforme sono implementate durante una recessione. Nel lungo periodo, né l’occupazione né i salari medi sono colpiti da queste riforme. Tuttavia la nostra analisi mostra che riformare i mercati dei servizi a rete ha conseguenze positive di lungo termine per la performance dell’occupazione dei settori ‘downstream’, cioè quelli che usano proprio i servizi a rete con input produttivo. (…) Per esempio, se la deregolamentazione dei settori a rete implica che questi servizi che fungono da input per altri comparti diventano più economici o migliorano in qualità, allora i costi unitari di produzione di chi ricorre agli stessi input produttivi si abbasseranno, favorendo loro competitività ed espansione delle imprese. (…) Gli aumenti occupazionali di tali riforme eccederebbero il 3 per cento nei paesi con una più stretta regolamentazione (Messico, Israele e Corea), mentre sarebbero inferiori all’1 per cento per i paesi in cui i relativi servizi di rete rappresentano già oggi le best pratiche in materia”. Per l’Italia, secondo la stima dell’Ocse, “ridurre i vincoli alla concorrenza nelle industrie di rete ai livelli delle migliori pratiche Ocse, rendendo quindi i loro servizi più convenienti alle imprese che ne fanno uso, aumenterebbe l’impiego di circa l’1,7 per cento nel lungo termine”.
Perché è fondamentale che la contrattazione sia decentralizzata anche nella Pa
Terzi, nel suo studio pubblicato per Bruegel, sostiene che – in attesa di una vera e propria contrattazione aziendale – “nel breve termine la contrattazione collettiva, e in particolare la scelta dei livelli salariali minimi, dovrebbero essere univocamente spostate dal livello nazionale a quello regionale, e ciò deve valere per tutti i contratti, siano essi del settore pubblico o privato. Questa scelta ‘second-best’ è mirata ad aggredire immediatamente le differenze geografiche discusse – di produttività, reddito e costo della vita ndr – e dovrebbe essere il primo passo verso una piena decentralizzazione della contrattazione. Seppure di primo acchito potrebbe apparire problematica l’idea di uno stato unitario che paga in maniera non uniforme i propri dipendenti, e anzi varia la retribuzione sulla base della collocazione geografica, è cruciale che questa riforma si applichi anche al settore pubblico. Infatti se come risultato di una regionalizzazione della contrattazione i salari iniziassero un processo di aggiustamento soltanto nel settore privato, il gap tra i salari del settore pubblico e quelli del settore privato crescerebbe ancora. E, come argomentato da alcuni economisti, salari relativamente alti nel settore pubblico potrebbero danneggiare il settore privato, attirando nella Pubblica amministrazione tutti i lavoratori più qualificati e costringendo le imprese a una corsa verso l’alto che potrebbe deteriorare la competitività e creare problemi di disoccupazione”.