“Risolvere la crisi bancaria tocca a Draghi”, dice Christensen
Roma. Mario Draghi entra in un pub, con una macchina per stampare moneta sotto il braccio e annuncia: “Stasera offro io”. Tutti corrono verso il bancone, poi però il banchiere centrale aggiunge: “Ma se qualcuno si ubriaca, me ne vado e non pago per nessuno”. “Ecco che l’effetto annuncio si depotenzia, ed è quanto accade da mesi sui mercati”, dice al Foglio Lars Christensen, l’autore della metafora, economista danese, fondatore della società di consulenza per imprese e istituzioni pubbliche Markets and Money Advisory, oltre che Senior fellow all’Adam Smith Institute. Il giudizio di Christensen sulla politica monetaria europea è strettamente legato a quello che ha elaborato sulle banche italiane, al centro di una potenziale crisi che molti analisti paragonano a una sorta di nuova Brexit: “La loro crisi ha poco a che fare con quanto accaduto prima del 2008”. La questione è controversa nel nostro paese, c’è chi è accusato di aver chiuso gli occhi sostenendo che gli istituti italiani fossero più solidi degli altri: “Io invece ritengo che i vostri istituti fossero effettivamente messi meglio. Non a caso non sono entrati in crisi subito sulla scorta del collasso finanziario, come invece è accaduto altrove, inclusa la Germania – dice l’economista – I loro bilanci erano colmi di titoli di stato di Roma, vero, ma gli errori del management c’entrano fino a un certo punto. Quella situazione è stata il frutto di pressioni delle autorità pubbliche nazionali, oltre che delle regole di Basilea 3 che considerano privi di rischi allo stesso modo i titoli di stato di tutti i paesi e della politica monetaria della Banca centrale europea che, facendo incetta di titoli sovrani soltanto sul mercato secondario, ha reso l’acquisto di questi titoli un modo alternativo per ricapitalizzarsi da parte delle stesse banche”.
Christensen addirittura ribalta la prospettiva più deprimente: “Con dieci punti di prodotto interno lordo persi in questi anni, dovreste anzi essere sorpresi della resistenza delle vostre banche”. Secondo l’economista danese, “la crisi bancaria italiana è essenzialmente una conseguenza della crescita nominale troppo bassa nel vostro paese: quando il pil nominale comincia a scendere drammaticamente, ecco che cresce la quantità di crediti deteriorati in proporzione al pil”. Il pil reale italiano “è più basso della media dell’Eurozona da ben prima dell’inizio della recessione, e ritengo che i fattori frenanti principali siano una demografia in profonda crisi e un mercato del lavoro ingessato. Detto ciò, il colpo di grazia è arrivato con una caduta del pil nominale, cioè pil reale più inflazione, del 25 per cento rispetto al trend pre-crisi: con un’inflazione pari a zero, e a tratti negativa, i debiti privati, oltre che quelli pubblici, tendono a esplodere. Ecco il problema odierno delle vostre banche”. Christensen riconosce che queste sono anche le tesi di alcuni cosiddetti “no euro”, ma precisa che “un conto è dire che l’Italia non avrebbe mai dovuto entrare nell’euro, come io credo, e un altro paio di maniche è sostenere che uscire su due piedi dalla moneta unica sarebbe la soluzione a tutti i vostri mali”.
Che fare, dunque, se si rimane nel perimetro della moneta unica? “La ricapitalizzazione delle stesse banche, auspicata da più parti, non servirebbe. Piuttosto bisogna guardare al ruolo della politica monetaria europea”. Ieri gli investitori puntavano la loro attenzione al consiglio direttivo della Bce di giovedì, ma la politica di Francoforte è espansiva, e da tempo. “Mi permetto di tornare alla metafora di Draghi che entra nel pub. Prima dice che è disposto a offrire da bere a tutti, poi mette delle condizioni. Draghi e i suoi colleghi della Banca centrale europea sono diventati famosi per il fatto che ripetono ‘we never pre commit’, cioè ‘non prendiamo mai impegni prima’. Invece servirebbe che dicessero: ‘We commit’, cioè ci impegniamo a un certo livello di inflazione, per esempio il due per cento – dice Christensen – Io sono convinto che sarebbe ancora meglio se si impegnassero a raggiungere un target di crescita del pil nominale, diciamo pari al 4 per cento, ma capisco che lo statuto stesso della Bce al momento non lo permette. Siamo ossessionati dal ritorno dell’irresponsabilità degli anni 70 e 80, ma oggi lo scenario dell’andamento dei prezzi è più simile a quello degli anni 30. Se la Banca centrale non prende un impegno di qualche sorta, allora nei mercati prevarrà sempre il retropensiero che la Bce possa arrestare il programma di Quantitative easing (allentamento quantitativo, ndr), magari sotto le note pressioni della Bundesbank”.