La lagna anti bail-in non salverà le nostre banche, dice Massiah
Milano. Bail-in è la parola più pronunciata e meno amata dai banchieri italiani. Come un brutto sogno, l’idea che a pagare nei salvataggi bancari siano i privati e non i contribuenti si porta dietro una scia di fantasmi pronti a trasformarsi in dura realtà: perdite secche per gli azionisti, azzeramento dei possessori di obbligazioni, messa in discussione dei vertici degli istituti. Dopo avere provato per tutto il 2015 a esorcizzarlo – scommettendo prima sulla creazione di una bad bank di sistema, poi su un intervento del Fondo di tutela dei depositi – e dopo averlo dovuto ingoiare per salvare quattro banche in crisi (da Etruria a Marche), oggi del bail-in si chiede la sospensione e se ne denuncia perfino l’incostituzionalità, come ha fatto di recente il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, anche se non è certo così che si appianano le divergenze con Bruxelles. Ci sono banchieri però che la pensano in modo diverso. Come Victor Massiah, consigliere delegato di Ubi Banca, che in questa conversazione con il Foglio non ha difficoltà ad affermare che “il bail-in è giusto, perché è giusto che chi ha investito consapevolmente in una banca partecipi ai costi della sua risoluzione, altrimenti si spalanca la porta al moral hazard (l’idea che tutti gli investimenti bancari sono sicuri tanto alla fine interviene lo stato, ndr)”. Ciò detto Massiah ritiene che nella normativa ci sia “un buco da correggere”, perché non è regolato il periodo transitorio e il bail-in si applica “retroattivamente” anche a chi ha effettuato le sue scelte d’investimento quando esso non era in vigore.
Se qualcosa si deve chiedere alla Commissione, dunque, non è tanto una generica sospensione del principio (“mai affrontare un negoziato senza qualcosa da offrire alla controparte”, dice Massiah) ma è di aprire una trattativa per coprire quel buco tenendo fermo il principio: “Si fissi una data spartiacque, sia essa quella della Comunicazione bancaria del 2013 o il termine per il recepimento della Direttiva sul bail-in di fine 2014, e si tratti con Bruxelles su questa proposta concreta. Un esito positivo vedrebbe tutti vincitori: la Commissione perché sarebbe salva l’idea che a pagare non deve essere il contribuente e il governo italiano perché vedrebbe tutelati gli interessi di chi ha investito prima di quella data”.
Cosmopolita per tradizione familiare, con importanti esperienze in McKinsey e Banca Intesa, laureato a Roma in Economia internazionale (preside della Commissione di laurea era Federico Caffè, relatore Giancarlo Gandolfo e revisore della tesi Pier Carlo Padoan, all’epoca assistente nella facoltà con Mario Draghi), Massiah è per certi versi una voce fuori dal coro nel mondo un po’ ingessato del credito italiano. Dirige una banca tra le più solide d’Italia che è frutto di una fusione fra una banca popolare e una spa realizzata prima della riforma del settore. Come tutti ritiene che il problema numero uno e più urgente del sistema bancario italiano sia la zavorra dei crediti deteriorati (Npl, Non performing loan) ereditati dalla lunga recessione.
Diversamente dalla maggioranza tuttavia Massiah pensa che il problema possa trovare una soluzione relativamente rapida (magistratura permettendo). Come? “Sa quali sono i tempi di recupero degli Npl in Italia? Si va dai 3 anni dei Tribunali di città come Torino e Milano ai 15 di altre zone del paese con una media nazionale di 7 anni, una varianza che di per sé segnala un problema di giustizia. Questa lentezza senza confronti deprime il prezzo al quale gli Npl possono essere venduti e di conseguenza aumenta la minusvalenza che le banche venditrici sarebbero costrette a portare a bilancio in caso di cessione. Di fatto complica la formazione di un mercato degli Npl e crea un fabbisogno di capitale che altrimenti non avrebbe quelle dimensioni”. Il governo però non ha già preso una serie di provvedimenti per accelerare il recupero dei crediti? “Sì, ma sono prevalentemente misure che valgono d’ora in avanti. Se tutti i tribunali invece fossero obbligati ad adeguarsi alle best practices nazionali, cioè ai tre anni massimi di Torino e Milano, l’effetto ricadrebbe anche sui processi in essere e l’impatto al rialzo sui prezzi e al ribasso sul fabbisogno di capitale sarebbe immediato e significativo. Ce lo chiedono gli investitori internazionali quando li incontriamo, la Commissione sarebbe la prima a rallegrarsi”. Un’idea condivisa dai mercati e da Bruxelles, una soluzione rapida e semplice. Perché non si fa? Indecisioni governative o veti corporativi? Massiah non fa nomi. Tuttavia è facile intuire che le resistenze vengano dai settori organizzati della magistratura che sarebbe chiamata in causa ma non vuole essere messa sotto pressione e dalla ritrosia del governo a premere sull’acceleratore in un momento politicamente delicato.
Ci sarebbero altre strade per uscire dal puzzle della crisi bancaria? Tra gli economisti di marca liberista è tornata ad affacciarsi l’idea del ricorso al Fondo salva stati, ovvero il sostegno europeo sotto condizioni di cui si avvalse per esempio la Spagna nel 2012. Secondo alcuni, i problemi italiani di oggi derivano anche dal mancato coinvolgimento del Fondo da parte dei governi che gestirono il dopo crisi. Il numero uno di Ubi, tuttavia, ritiene che all’epoca non vi fossero le condizioni e oggi non vi sia la necessità di un ricorso al Fondo. “Nel 2011-2012 il focus non era sulle banche, era piuttosto sull’emergenza finanziaria e il governo Monti era concentrato su un’azione volta al recupero della credibilità internazionale attraverso misure molto incisive sulle pensioni e sulla fiscalità. L’intervento del Fondo in questo contesto avrebbe ulteriormente aggravato la stretta finanziaria”. Quanto all’oggi esso non è necessario “perché la sottopatrimonializzazione del sistema bancario italiano è stata eccessivamente enfatizzata. Non è quello che si pensa. Guardi, tutti sanno che alla fine i problemi di sottocapitalizzazione riguardano due realtà acclarate e dichiarate dalle stesse banche interessate. Non vedo la necessità di intervenire sul resto del sistema”. Le problematiche del credito in ogni caso non possono essere analizzate al di fuori del contesto politico ed economico del paese.
Secondo il banchiere di Ubi, dal punto di vista della politica economica la priorità va al completamento del processo di riforme avviato. Senza sbilanciarsi sul referendum costituzionale, Massiah ritiene “auspicabile che a livello di contesto generale il governo possa avere la continuità per concentrarsi fondamentalmente sul completamento delle riforme, perché il Quantitative easing di Mario Draghi ci consente di guadagnare tempo ma questo tempo va impiegato proficuamente”. Dunque, dopo essere intervenuti sul mercato del lavoro con il Jobs Act, “occorre ragionare sulla riforma della giustizia, sulla struttura della fiscalità, sui tagli nella Pubblica amministrazione”. Sul piano più strettamente economico Massiah si stacca dal mainstream congiunturalista e manifesta un cauto ottimismo. Intanto “con una crescita demografica nulla o negativa bisogna rendersi conto che una ripresa seppure bassa è già un successo”. Dal suo osservatorio come altri banchieri vede inoltre una crescita a macchia di leopardo “con zone come il bresciano o il milanese in cui gli imprenditori stentano a trovare lavoratori e larghe zone del sud dove il fenomeno è opposto”. Ma nello stesso tempo registra una maggiore consapevolezza nel paese sulla complessità dei problemi: “C’è meno ostilità nei confronti delle imprese, perché mancando il lavoro ci si rende conto che le imprese sono utili, ma lo stesso discorso si comincia a fare anche per le banche di cui si capisce la necessità”. Stiamo tornando, conclude Massiah, “ai bisogni fondamentali”.