Cosa temono gli investitori quando parlano di referendum
Roma. Secondo molti osservatori Matteo Renzi sembra avere giocato d’azzardo legando la sua permanenza e la sua attività politica all’esito del referendum costituzionale di fine anno – la data non è ancora stata stabilita. Se la “riforma delle riforme” non passerà probabilmente si acuirà la fuga degli investimenti dal paese per via del riemergere dell’incertezza politica: un fattore di instabilità che l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi nel febbraio 2014 aveva spazzato via dopo la flemmatica premiership di Enrico Letta e il governo tecnico di Mario Monti. Come un “cigno nero” – metafora usata dell’epistemologo ed ex trader Nassim Nicholas Taleb per descrivere gli effetti nefasti di un evento cui siamo impreparati come la crisi globale – l’esito negativo della consultazione per ora è sottovalutato. Gli analisti finanziari esteri interpellati dal Foglio preferiscono non pronunciarsi sull’argomento perché stanno cominciando soltanto ora a riflettere sulla questione, dicono da tre case d’affari anglosassoni.
“Abbiamo ricevuto richiesta di approfondimenti dall’Asia”, dice un analista. Il Giappone, ad esempio, è un fedele acquirente di titoli di stato italiani. Nella sua newsletter periodica Rick Rieder, chief investment officer di BlackRock per il segmento fixed income, bond e money market securities, pone il referendum costituzionale tra gli argomenti di cui il fondo d’investimento più grande al mondo intende “prendere particolarmente nota” insieme alle elezioni americane e a quelle tedesche del 2017. “Il tema al momento non è ancora al centro dell’attenzione”, dice al Foglio anche Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana. “Detto questo, dagli investitori un voto favorevole al referendum sarebbe visto in maniera favorevole in termini di governabilità del paese. Una vittoria del ‘no’ avrebbe un impatto negativo solo nel caso di una crisi di governo che conduca a nuove elezioni. La situazione economica, il processo di riforme in atto, le incertezze dello scenario internazionale prediligono la stabilità politica”.
Il problema non è passato inosservato dalle parti del Financial Times che nell’inserto di lunedì scorso dedicato ai gestori di capitali ha sottolineato che “gli asset dei principali fondi che coprono il mercato italiano sono diminuiti sensibilmente da inizio anno mentre il paese si prepara a un referendum sulla Costituzione e il suo settore bancario flirta con il collasso”. Sentenza corroborata dalle cifre sul ritiro comprovato di capitali esteri investiti sul mercato azionario italiano. Da un sondaggio di Bank of America Merrill Lynch risulta che il 42 per cento dei gestori di fondi interpellati ha ridotto l’esposizione sull’Italia rispetto agli standard abituali. Nicholette MacDonald-Brown di Schroders dice al Ft di avere al momento mantenuto solo tre titoli italiani in portafoglio su 50 trattati perché, al di là degli energetici e dei finanziari, gli altri sono poco liquidi. La caduta complessiva degli investimenti nella Borsa nazionale corrisponde a circa 3 miliardi di euro da inizio anno, secondo le ricerche di Epfr Global.
Il riflusso è da imputare principalmente non a eventuali timori sull’esito del referendum – i sondaggi restituiscono risultati parziali, prematuri e con un sostanziale equilibrio tra favorevoli e contrari – ma alle conseguenze della Brexit e alle difficoltà del sistema bancario con il Monte dei Paschi di Siena nel mezzo di un difficoltoso salvataggio attraverso strumenti di mercato alla vigilia degli stress test europei (vedi editoriale). Le doglie bancarie rappresentano un fattore che può influenzare il referendum. Se l’architettura del soccorso al Monte dei Paschi dovesse deragliare e se nemmeno un intervento pubblico dovesse poi scongiurare una procedura di risoluzione attraverso il bail-in verrebbero penalizzati, oltre agli azionisti, anche gli obbligazionisti subordinati della banca. Si stima che 2,2 miliardi di titoli subordinati (Tier 2) siano in mano a investitori retail, ovvero risparmiatori comuni, che se vedessero azzerati i loro investimenti non esiterebbero a scendere in piazza, insieme a quelli già coinvolti nella risoluzione di altre quattro banche. Il referendum sull’abolizione del bicameralismo perfetto sarebbe usato a pretesto per punire Renzi. Banchieri, imprenditori e analisti da tempo dicono che il problema di una caduta di Renzi è che dopo non c’è nessun Renzi.
Che effetto avrebbe una sindrome da terrore del vuoto? “E’ difficile dirlo ma vedremmo una riduzione degli investimenti in particolare sull’azionario più che sul debito sovrano che è tutelato dalla Banca centrale europea”, dice Neil Unmack, columnist di Reuters Breakingviews. “In caso di dimissioni di Renzi, dipende da come si reagirà al problema. E’ da vedere se il centrodestra avrà a quel punto costruito la leadership di Stefano Parisi e se il Movimento 5 stelle avrà guadagnato consensi. Se ci sarà un governo di coalizione vedremmo una riduzione degli investimenti, ma almeno il ‘panic selling’ in quel caso forse sarà evitato”. Le intenzioni riformatrici di Renzi avevano migliorato la percezione dell’Italia all’estero, mostrava in aprile 2014 un sondaggio condotto per conto dell’Associazione italiana banche estere. Il clima è cambiato e con la vittoria del “no” può solo peggiorare.