Il pendolo dell'Italia
Roma. Sulle note del “Brexit blues”, la malinconia dei mercati per il distacco del Regno Unito dall’Europa, sancito il 23 giugno scorso, l’Italia è stata descritta da diversi osservatori – Wolfgang Münchau del Financial Times ad esempio – come l’epicentro di un euro-cataclisma prossimo venturo. Nella descrizione di uno scenario apocalittico pesano molto le persistenti doglie dell’industria bancaria evidenziate – ma soltanto in parte – dagli stress test dell’Eba (vedi articolo in alto) e la prospettiva di una sconfitta di Renzi al referendum costituzionale di fine anno, con conseguente ritorno del rischio di ingovernabilità. Tuttavia l’apocalisse non sembra il migliore incipit per un’analisi – e forse nemmeno il canonico pil, indice sintetico della crescita, lo è (o almeno lo è solo in parte).
In che stato siamo dunque? L’economia italiana sta gradualmente riemergendo dalla più lunga recessione dal Dopoguerra ma lo fa più lentamente rispetto alle altre economie europee e oscilla in modo irregolare tra ripresa e stagnazione. Paradigmatica è l’attività produttiva dell’industria manifatturiera – macchinari e mezzi di trasporto contano per il 36,3 per cento delle esportazioni. Il numero di settori in espansione è sceso a 55 in aprile dai 60 di inizio anno, ovvero la diffusione della ripresa nella manifattura è incostante e disomogenea. Dopo un recupero a inizio 2016, rispetto al rallentamento di fine 2015, l’attività produttiva è tornata a calare a maggio in concomitanza con una contrazione di fatturato e ordinativi delle imprese. I principali comparti (beni strumentali, intermedi e di consumo) singhiozzano, a eccezione dei mezzi di trasporto, col settore automobilistico in buona forma.
L’industria ha rallentato perché alcuni paesi emergenti destinatari di prodotti italiani, Brasile e Russia, sono in difficoltà. Sulla scorta dell’aumento del reddito disponibile delle famiglie e del miglioramento del mercato del lavoro – la disoccupazione è alta a 11,6 punti ma resta stabile, mentre aumenta il numero degli attivi e degli occupati, a fronte di un rallentamento delle assunzioni a tempo indeterminato dovuto all’esaurimento delle decontribuzioni per i datori di lavoro – la spesa per consumi è aumentata negli ultimi due anni. Tuttavia a partire dalla primavera, la predisposizione al consumo ha lasciato gradualmente spazio alla predisposizione al risparmio con l’emergere di comportamenti prudenziali da parte delle famiglie: nel primo trimestre 2016 solo poco più di un quarto dell’incremento del reddito disponibile reale (in crescita dell’1,1 per cento) si era tradotto in maggiori consumi, con speculare rialzo della propensione media al risparmio (più 8,8 per cento), secondo la nota congiunturale dell’Ufficio parlamentare di bilancio.
Questa stessa fonte evidenzia che il cambiamento di postura da parte delle famiglie è valido anche per le imprese: nonostante le migliori condizioni del credito, con richieste di prestiti e mutui in aumento, il livello di investimenti è inferiore del 30 per cento rispetto al livello precedente la crisi, del 20 se si guarda al solo settore delle costruzioni dove gli investimenti si sono ridotti di nuovo (meno 0,5 per cento) rispetto al recupero di metà 2015. La fotografia di un paese che fatica a liberare risorse per stimolare l’economia è restituita dall’indicatore Command Gdp, usato dall’Ocse per misurare la capacità di un paese di acquistare beni e servizi sul mercato mondiale a fronte della propria produzione. Il Command Gdp è aumentato in misura doppia rispetto al pil perché è migliorata la ragione di scambio (rapporto tra prezzi delle importazioni e delle esportazioni) in conseguenza al collasso del prezzo delle materie prime che ha avuto un impatto positivo sul reddito reale italiano. Se nella fase di ripresa le potenzialità di spesa sono decisamente migliorate – il Command Gdp è salito del 2,6 per cento del pil – i consumi e gli investimenti hanno risposto in modo modesto – più 1,7 per cento. Significa che l’impulso non ha stimolato la domanda interna e che l’incremento del potere d’acquisto nazionale è servito, dal lato degli individui, non per nuovi acquisti ma per ricostituire i risparmi. Dal lato delle imprese, è finito in accantonamento di riserve vista l’incertezza del mercato. Entrambe le categorie hanno ripagato debiti e prestiti. La “materia prima” più scarsa resta la propensione al rischio e alla spesa.