Perché nell'industria del futuro il lavoro è possibile solo se flessibile
In attesa del piano strategico nazionale sull’Industria 4.0 del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda Calenda prenda forma – doveva essere annunciato oggi ma è stato rinviato a data da destinarsi – il dibattito si agita a livello europeo. Non sono le istituzioni comunitarie a lanciare spunti quanto coloro che sono più vicini alla vita quotidiana delle imprese e che ne respirano i cambiamenti in atto. Facciamo riferimento alle parti sociali e al ruolo fondamentale che hanno in questa fase di transizione da un modello industriale più monolitico, standardizzato e lineare a uno molto più complesso, dinamico, flessibile come è quello della manifattura digitale. In un recente rapporto, Ceemet, l’associazione di rappresentanza delle imprese meccaniche dentro cui confluisce la nostra Federmeccanica, lancia diversi spunti su uno dei fronti tanto più importanti quando più ignorati della rivoluzione 4.0: il lavoro. Lo fa rompendo alcuni tabù che vengono ormai considerati superati dagli osservatori e dal dibattito pubblico ma non, finora e fino in fondo, dal mondo imprenditoriale né tantomeno da quello sindacale (tranne alcune eccezioni). Si tratta dell’andare oltre l’idea di lavoro in fabbrica come una attività caratterizzata da orari e luoghi di lavoro fissi fondati su quel modello di lavoratore subordinato a tempo indeterminato che tanto ricorda un Novecento industriale in bianco e nero. Un modello che la nuova Industria 4.0 aiuterebbe a superare ma che ha sempre fatto comodo a un mondo imprenditoriale legato a logiche di controllo e di gerarchia che la flessibilità spazio-temporale allenterebbe molto.
Ceemet individua tre tipi di flessibilità che la manifattura digitale consente di realizzare, nell’interesse delle parti in gioco. La prima è la flessibilità dell’orario di lavoro, resa possibile da nuove tecnologie che consentono da un lato di governare la produzione in tempo reale lungo tutta la supply chain grazie alla rete e a un sistema interconnesso, dall’altro dal declino dei prodotti standardizzati e quindi delle tempistiche predefinite e costanti necessarie per la realizzazione dei lotti. Allo stesso tempo ciò incontrerebbe esigenze di quei lavoratori che, come diversi studi sottolineano, non concepiscono più la vita quotidiana come una netta distinzione tra lavoro e tempo libero, ma desidererebbero maggiore autonomia e responsabilizzazione nella gestione del tempo e delle carriere. La seconda flessibilità è quella del luogo di lavoro, sempre più disallineato dalle quattro mura della fabbrica, si trova li dove il lavoratore può utilizzare il proprio pc o il proprio smartphone. Una flessibilità questa più difficile da concedere ai lavoratori di produzione delle industrie pesanti, e che vedrà più interessato il mondo impiegatizio. Da ultimo la flessibilità nella definizione di lavoratore dipendente, oggi ancora retaggio di un mondo di produzione di massa standardizzato, con il quale ben si sposava il lavoratore a tempo indeterminato sia per la forte logica di subordinazione, funzionale all’organizzazione del lavoro fordista, sia per il ciclo di produzione-consumo che faceva sì che il lavoratore fosse lo stesso consumatore, in un modello di business e di produzione non più attuale da almeno trent’anni ma rimasto vivo nella regolazione del lavoro e in molta contrattazione collettiva nazionale.
Si tratta di tre provocazioni che, se da un lato possono essere viste come strumenti a vantaggio di una deresponsabilizzazione dell’impresa, dall’altro stupiscono non poco se si considera che provengono da un settore come quello meccanico, in cui l’impresa di tipo padronale è ancora dominante. Spunti che sotto alcuni aspetti condividono dichiarazioni sia del sindacato confederale europeo (Etuc) che di quello dei metalmeccanici (IndustriAll) sulle sfide della digitalizzazione del lavoro che completano il quadro sottolineando come sia importante rivolgere l’attenzione anche ai rischi sia in termini occupazionali che di stress e possibile invasività degli strumenti di controllo. Quello che è certo è che queste idee possono aiutare il dibattito italiano, al momento incagliato negli scogli del rinnovo del contratto metalmeccanico che pare non voler decollare. Si tratta infatti di temi squisitamente, tranne in parte l’ultimo, di relazioni industriali e rispetto ai quali le istituzioni hanno unicamente il compito di costruire un quadro di regolamentazione chiaro entro il quale muoversi, come il CEEMET ricorda chiaramente.
Solo un termine compare solo due volte nel report, mentre dovrebbe essere tra i più importanti: produttività. Se infatti le diverse forme di flessibilità servono unicamente a risparmiare sui costi diretti e indiretti del personale e degli spazi non andremo molto lontano sia perché si tratta di soluzioni a breve termine di fronte ad una competitività internazionale in forte aumento sia perché è complesso immaginare accordi tra le parti nel merito. Se invece queste piccole rivoluzioni saranno improntate ad un aumento della produttività del lavoro, con un conseguente beneficio sui salari dei lavoratori e sulla diminuzione di un clima conflittuale in azienda potremo dire che il 4.0 non è unicamente una rivoluzione tecnologica, ma un enorme passo avanti nelle relazioni industriali e verso una nuova idea di lavoro, di cui tutti hanno oggi immensamente bisogno.