Addio trattati di libero scambio. La nuova frattura
Roma. Nella nuova grande frattura politica raccontata la settimana scorsa dall’Economist, che non riguarda più conservatori e progressisti, destra e sinistra ma l’apertura e la chiusura, il globalismo e il protezionismo, la prima vittima è il libero scambio. O meglio, i mastodontici trattati multilaterali che sono stati una delle cifre dell’èra di Barack Obama e che ora rischiano di tramontare uno dopo l’altro. Ancora questa settimana, parlando da Singapore, il presidente americano ha perorato la causa del Tpp, Trans-Pacific Partnership, trattato di libero scambio tra dodici nazioni del Pacifico compresa l’America, si è augurato che il Congresso approvi in fretta la ratifica del trattato e si è lanciato in una difesa appassionata del globalismo e dell’abbattimento degli steccati che ancora impediscono la libera circolazione: “In un’economia globale la risposta non può essere ritirarsi dal commercio”, ha detto Obama. “E’ qui per rimanere, non è possibile tagliarci fuori visto quanto integrate sono le nostre economie. Creare divisioni sul commercio danneggerebbe noi e i nostri lavoratori”.
Ma nemmeno tutta la passione di Obama potrebbe salvare il Tpp, perché, dopo infinite discussioni, il voto vincolante del Congresso sul trattato è slittato definitivamente a novembre, nel periodo tra le elezioni e l’insediamento del nuovo presidente, quando Obama sarà un’“anatra zoppa” istituzionalmente scoraggiato a varare grandi provvedimenti. Questa settimana un gruppo di deputati del Partito repubblicano, che detiene la maggioranza al Congresso, ha inviato una lettera al presidente sconsigliandolo di presentare il trattato a un “lame duck Congress” perché il tema genera troppe polemiche per essere discusso da un’Aula in dismissione. Giovedì, lo speaker Paul Ryan, repubblicano, ha detto che “non vede la ragione” di portare il Tpp al Congresso visto che non ci sono i voti per approvarlo.
La corsa dei negoziati è durata poco anche per il fratello gemello del Tpp, il Ttip, Transatlantic Trade and Investment Partnership, accordo di libero scambio tra l’America e i paesi dell’Atlantico. Se Obama nutre ancora qualche speranza per il Tpp, il Ttip è ormai considerato morto dalla maggior parte degli analisti. Ormai è evidente che Washington e i ritrosi paesi europei non riusciranno a negoziare un deal entro la scadenza del mandato di Obama – né il Vecchio continente ha intenzione di farlo – e così la pratica dei trattati di libero scambio, seppure a due diverse fasi di negoziato e approvazione, finirà tutta in mano a chi otterrà la Casa Bianca alle elezioni di novembre. E qui, lo sappiamo, sia che si tratti di Donald Trump, che del rifiuto del libero commercio ha fatto il fulcro della sua campagna elettorale, sia che si tratti di Hillary Clinton, che per seguire il riflusso protezionista ha disconosciuto in una delle rarissime occasioni la legacy obamiana, dichiarandosi contraria al Tpp, il risultato rischia di essere lo stesso: i due trattati su cui l’Amministrazione ha investito una parte consistente della sua credibilità internazionale si stanno per arenare, o quasi.
In Europa siamo vicini a un risultato simile con il Ceta, Comprehensive Economic and Trade Agreement, l’accordo di libero scambio tra l’Ue e il Canada che, su decisione recente della Commissione europea, dovrà essere approvato dai singoli Parlamenti nazionali per entrare in vigore, con un percorso accidentato che potrebbe finire in un vicolo cieco. Contro il Ceta due giorni fa in Germania un gruppo trasversale di associazioni ha annunciato “la più grande causa civile della storia della Repubblica federale”, con centomila persone che hanno firmato per chiedere alla Corte suprema di scongiurare la possibilità che in autunno il trattato venga applicato dal Consiglio dei ministri dell’Unione europea in modalità provvisoria. Ma, come scrive il Financial Times, la più grande causa civile della storia tedesca “è niente” in confronto all’avversione che il Ttip con l’America genera in gran parte della popolazione del Vecchio continente.