La migliore spending possibile? Introdurre il fallimento nel pubblico

Serena Sileoni
Nulla impedisce che anche nel settore pubblico sia introdotta un’ipotesi di fallimento. L’esempio da seguire è quello del settore della Sanità rivoluzionato in Germania vent’anni fa anche grazie alle privatizzazioni.

Yoram Gutgeld, commissario del governo Renzi alla revisione della spesa, ha più volte dichiarato che il suo obiettivo non è tanto risparmiare tagliando quanto risparmiare rendendo la spesa più efficiente. Nel suo piano di revisione, spicca ad esempio la riduzione delle centrali d’acquisto. Nel settore sanitario, la centralizzazione delle gare dovrebbe portare ad averne una per regione. Se la parcellizzazione della spesa sanitaria ha portato fuori controllo gli acquisti per servizi e forniture, è anche vero che la centralizzazione delle gare nel lungo termine è una misura che annulla la possibilità per le singole strutture di poter negoziare. Questo comprime la flessibilità a disposizione di ogni singola azienda ospedaliera, riduce lo spazio per la buona gestione, equipara bravi e cattivi compratori nell'ipotesi che il compratore unico sia sempre e comunque migliore. Più utile, invece, la via intrapresa dalla legge di stabilità del 2016, che ha rafforzato gli obblighi di trasparenza e leggibilità dei bilanci degli enti del servizio sanitario, in maniera da rendere più chiaramente manifeste le gestioni virtuose da quelle in deficit.

 

Si tratta di obblighi in parte già previsti – come ad esempio quello della pubblicazione del bilancio nel sito internet dell’ente – ma non ottemperati in mancanza di un incisivo strumento sanzionatorio. Le novità introdotte dalla legge di stabilità, analizzate nel paper dell’Istituto Bruno Leoni “Bilanci e gestione degli ospedali pubblici: una buona notizia e una proposta” (PDF) di Paolo Belardinelli, sono però solo un piccolo passo verso una gestione più limpida e quindi responsabile della spesa sanitaria. Manca infatti la misura più coraggiosa ma al tempo stesso più importante per raggiungere l’obiettivo di una spesa sanitaria efficiente: se, infatti, le aziende in deficit sono tenute a presentare un piano di rientro e le regioni ad assicurarsi che esso sia adottato, resta inevasa l’ultima fatidica domanda: cosa accadrebbe se questi obblighi non venissero rispettati? Nel caso di un’azienda privata, conosceremmo la risposta: una situazione di costante e pervadente insolvenza è sinonimo, prima o poi, di fallimento.

 

Il grande discrimine tra privato e pubblico è fondamentalmente tutto qui, nella possibilità di sopravvivere al fallimento che il sistema pubblico ha, potendo garantirsi di essere foraggiato dai contribuenti. Tuttavia, in linea non solo di principio ma anche pratica, nulla impedisce che anche nel settore pubblico sia introdotta un’ipotesi di fallimento. Dichiararlo, non implica eliminare i fattori produttivi che facevano parte dell’azienda fallita, ma anzi consentirne il recupero e aprire alla possibilità che siano riallocati in maniera più efficiente. Come ricorda Belardinelli nel paper, oggi il nostro sistema sanitario vive un passaggio molto simile a quella della Germania di circa 20 anni fa, quando la situazione economica di molti ospedali pubblici era talmente difficile che i loro proprietari, generalmente i comuni, non erano più in grado di sostenere il deficit finanziario accumulato.

 

In quel contesto, molti comuni optarono per la vendita a un ente privato, il quale chiaramente aveva l’obiettivo di sanarne i bilanci al fine di ottenere utili nel medio termine. A seguito del processo di privatizzazione, gli ospedali pubblici tedeschi sono passati a essere poco più di un quarto del totale. Un simile percorso potrebbe avvenire nel nostro paese. E’ un percorso, per quanto originale per il nostro modo di pensare in maniera contrapposta servizio pubblico e profitto, che non deve spaventarci, ma che anzi deve essere inteso come la via per garantire il primo attraverso il secondo.