Un business olimpico
Anche noi, come Aldo Grasso, siamo rimasti folgorati dal bel documentario trasmesso nei giorni scorsi da History Channel su Berlino 1936, l’archetipo delle Olimpiadi moderne come grande evento mediatico. Se allora i Giochi Olimpici servivano per celebrare lo splendore e la maestosità della Germania nazista di fronte agli occhi del mondo, oggi oltre all’alto valore sportivo e agonistico, Rio 2016 rappresenta anche la perfetta passerella per aziende e brand che vogliono mostrare il loro profilo valoriale più alto, nobile e istituzionale. Le comunicazione degli Official partners (undici aziende che hanno versato circa un miliardo di euro ciascuno alle casse del Comitato internazionale olimpico) non hanno come contenuto banali pubblicità di prodotto, bensì una serie di sofisticate narrazioni (ehm, pardon, storytelling) di atleti-persone che si impegnano, soffrono, falliscono, si rialzano e, spesso, alla fine riescono a vincere. Comunicazione emozionale, spesso commovente, che piace tanto condividere sui social network. Lunghi spot splendidamente realizzati dove “la persona è al centro”, sulla falsa riga delle pompose e magniloquenti mission aziendali, e dove la marca si rispecchia in tutti quei valori decoubertiani che i Giochi olimpici offrono su un piatto d’argento.
Mai come questa volta sono gli atleti i protagonisti principali delle campagne pubblicitarie delle aziende sponsor e, cosa ancor più interessante, non sono superstar bensì sportivi minori, magari appartenenti a nazioni e discipline poco battute. Visa è il principale sponsor della Refugee Olympic Team, una squadra composta da dieci persone nate in Siria, Repubblica Democratica del Congo, Sudan del Sud e Etiopia e che sono la rappresentazione di come lo sport possa essere una concreta via di fuga per chi è costretto a subire l’orrore della guerra (certo, le carte di credito sono la cosa più lontana da questo immaginario, ma guai a parlare di prodotto…). Samsung ha addirittura realizzato un mediometraggio documentaristico, diretto dal premio Oscar Morgan Neville, in cui si raccontano storie di atleti di paesi che non hanno mai vinto medaglie olimpiche e che hanno superato mille barriere per raggiungere un traguardo: anche qui in quasi quaranta minuti di filmato non vi è traccia di un prodotto Samsung. Al contrario, Coca-Cola negli spot-ritratto degli sportivi olimpici e paraolimpici (vincenti questa volta, la campagna si intitola #ThatsGold, con buona pace di De Coubertain) mostra i baldi giovani con una bella bottiglia di Coke in mano.
L’altro terreno su cui stanno giocando molti sponsor di Rio 2016 è quello della Corporate social responsability, attraverso una serie di attività e investimenti etici nelle zone più povere di Rio de Janeiro: Omega (gruppo Swatch), anche loro Official partner, nei mesi scorsi ha supportato l’associazione non profit VivaRio in dodici progetti sociali per le nuove generazioni. Insomma, tutti sponsor molto buoni, solidali e assolutamente non intenzionati a vendere prodotti, ma vogliosi di mostrare il loro lato “umano”.
Un altro parallelismo con i Giochi Olimpici del 1936 lo troviamo nei severi divieti imposti dal Comitato olimpico nei confronti di atleti, aziende sponsor e soprattutto non-sponsor. A Londra 2012 ebbero grande eco le campagne di ambush marketing (marketing da imboscata) realizzate da brand che non erano Official sponsor come Nike e Beat: in particolare il marchio di Dr.Dre – in seguito acquisito da Apple – regalò a gran parte degli atleti olimpici le costosissime cuffie, assicurando grande visibilità gratuita nel pre-gara.
Per evitare questi incidenti e salvaguardare l’esclusività degli Official Partners, il Cio ha inasprito la cosiddetta “Regola 40” della Carta olimpica che disciplina gli sponsor, vietando a tutte le aziende non direttamente coinvolte nella manifestazione non solo a mostrare il proprio marchio, ma anche a utilizzare sulle proprie pagine social parole e hashtag come #Olympic o #Rio2016 o mostrare i cinque cerchi olimpici. Si sono quindi create nelle settimane scorse spiacevoli incidenti di aziende (spesso sponsor tecnici degli atleti fuori dalle Olimpiadi) che si sono viste contestare e intimate a rimuovere tweet e immagini dove si intravedeva mezzo cerchio olimpico. Insomma, anche senza una Leni Riefenstahl, la mediatizzazione impera.