Perché i paesi si rivoluzionano con le riforme liberali. Il caso Myanmar
Il Vietnam sembrerebbe confermare quel modello cinese secondo cui in Asia Orientale il decollo dell’economia deve precedere la democratizzazione: con la differenza che in Corea del Sud, Taiwan o Indonesia a un certo punto la fase della libertà politica è arrivata, mentre Cina, Laos e Vietnam sono ancora concentrati nella mera riforma economica e nella crescita, e Thailandia e Cambogia sono addirittura in piena fase di involuzione autoritaria. Ma Myanmar rappresenta un’interessante eccezione proprio nel senso che il boom, qui, è arrivato in concomitanza con l’apertura politica. Nel 2010 Aung San Suu Kyi fu liberata; nel 2011 la crescita del pil era al 5,6 per cento. Nel 2012 fu eletta in Parlamento, e la crescita passò al 7,3. Fu l’8,4 nel 2013 e dell’8,7 nel 2014, mentre la transazione andava avanti. Calò, si fa per dire, al 7,2 nel 2015, anno in cui l’8 novembre si tennero le elezioni che hanno dato al partito di Aung San Suu Kyi il 77 per cento. Ma è stata colpa di un’ondata di maltempo, cessata la quale per il 2016 si aspetta un +8,4.
Una grossa mano in questo effetto Aung San Suu Kyi la sta dando il turismo: il paese sta diventando la meta emergente del sud-est asiatico e quest’anno è stato registrato un aumento di un milione di visite rispetto al 2015: da 4,5 a 5,5 milioni. Con la definitiva caduta delle sanzioni internazionali l’obiettivo è arrivare a 7,5 milioni di turisti entro il 2019. Più in generale, anche i capitali stranieri stanno arrivando copiosi, e si aspettano 60 miliardi di dollari entro il 2030 per adeguare il sistema dei trasporti. In questo caso, la mossa vincente è stata dunque semplicemente quella di aprire.