La malattia dell'Italia non è l'austerità
I dati relativi al pil del secondo trimestre sono preoccupanti: l’economia italiana non cresce, è ferma, fa peggio del trimestre precedente e, soprattutto, fa peggio di tutti i paesi dell’Unione monetaria. Le colpe, secondo numerosi analisti e commentatori economici, sarebbero da ascrivere principalmente a due fattori. In primo luogo a fattori esogeni, quali il rallentamento globale, la Brexit, il terrorismo internazionale, l’immigrazione: se così fosse, però, anche gli altri paesi avrebbero dovuto registrare performance deludenti, e, invece, nella media dell’area, il prodotto interno lordo è cresciuto dello 0,3 per cento, con picchi dello 0,7 in Spagna e in Germania. In secondo luogo, alle politiche di rigore imposte dall’Europa: “Bisogna smetterla con l’austerità e concentrarsi finalmente sulla flessibilità e sulla crescita” è stato, infatti, il commento del presidente del Consiglio Renzi subito dopo la diffusione dei dati.
Ma siamo proprio sicuri che la flessibilità faccia crescere mentre l’austerità rallenti il pil? Forse no. Dipende dal modo in cui le politiche di bilancio sono implementate. Andiamo con ordine, però. Cercando di capire, innanzitutto, se in questi anni, in Italia, ci sia stata effettivamente austerità o meno. Un modo semplice per calcolare il grado di austerità è quello di misurare la variazione – rispetto all’anno precedente – del saldo primario strutturale, ossia al netto degli interessi sul debito e corretto per gli effetti ciclici. Dai dati pubblicati dal Fondo monetario internazionale dell’aprile scorso si evince che nel triennio 2013-2016 la politica fiscale in Italia è stata espansiva: il surplus primario strutturale è sceso, infatti, dal 3,5 al 2,6 per cento del pil. Nello stesso periodo altri paesi hanno, invece, implementato politiche restrittive: in Spagna, per esempio, il saldo è passato dallo 0 per cento a un surplus di mezzo punto percentuale, nel Regno Unito da un deficit del meno 2,9 per cento a meno 1,4 per cento, e infine, in Irlanda da un surplus dello 0,4 per cento all’1,9 per cento.
Insomma, di austerità in Italia c’è poca traccia: negli ultimi due anni ha prevalso la flessibilità. Eppure, la crescita è stata deludente. Nel periodo 2013-2016, la variazione del pil è stata pressoché nulla, mentre nei paesi in cui sono state messe in atto politiche di rigore fiscale è stata positiva e superiore alla media europea: 1,4 per cento in Spagna, 4,8 per cento in Irlanda e 2,3 per cento nel Regno Unito. A conti fatti – al netto di altri fattori che concorrono alla crescita – anche con la flessibilità l’Italia non è cresciuta. E, allora, che fare? In realtà, l’impatto delle politiche di bilancio – che siano espansive o restrittive – dipende dal modo in cui vengono attuate. Del resto, come sostenuto da Mario Draghi, c’è un’austerità “buona” che ha un effetto espansivo sull’economia e una “cattiva” che, invece, ha un effetto recessivo. L’austerità “buona” secondo il presidente della Banca centrale europea “prevede meno tasse e spesa contenuta e concentrata su investimenti e infrastrutture” mentre quella “cattiva aumenta le tasse e taglia la spesa in conto capitale invece di quella corrente”. Quest’ultima è quella politicamente più facile da attuare. Per aumentare le tasse basta un tratto di penna, mentre per tagliare le spese è necessario negoziare con centri di interesse organizzati. Ciò richiede un mandato politico forte e chiaro, che, ad esempio, non aveva l’esecutivo di Mario Monti. Il suo governo, infatti, ha fatto ricorso a dosi di austerità da cavallo (il surplus primario strutturale è passato dall’1,1 per cento del 2011 al 3,5 per cento del 2013) ma soprattutto di quella “cattiva”, anche a causa dell’emergenza. La pressione fiscale è così passata dal 41,6 per cento del 2011 al 43,4 per cento del 2013. Come prevedibile, questa “austerità cattiva” ha avuto effetti recessivi. Lo stesso tipo di austerità “cattiva” è stata applicata in Grecia. I suddetti esempi non hanno in comune solo aggiustamenti fiscali effettuati prevalentemente dal lato delle entrate, ma anche un’azione riformatrice insufficiente: al governo Monti, va riconosciuto quella (coraggiosa) delle pensioni e un timido inizio di quella del mercato del lavoro, al governo Tsipras per ora poco e niente.
Anche la flessibilità di bilancio, se fatta male, non fa crescere. Basti pensare al caso italiano degli ultimi due anni, in cui il margine di manovra è stato essenzialmente utilizzato per finanziare spesa corrente ed evitare incrementi della tassazione. Nel 2015 la spesa totale ha, infatti, continuato a crescere (895 milioni di euro in più rispetto al 2014) ma l’incremento degli investimenti pubblici è stato contenuto (385 milioni di euro). La tendenza a penalizzare la parte in conto capitale prevale anche nel 2016: su 360 milioni di risparmi di spesa previsti, 319 milioni sono in conto capitale. Dal lato delle entrate, la flessibilità è stata in larga parte utilizzata per disinnescare le clausole di salvaguardia inserite nella precedente legge di Stabilità. Pertanto dei 18 miliardi di tagli previsti, 16,8 miliardi sono destinati non una riduzione delle pressione fiscale, bensì un “non aumento”.
Va detto, però, che la flessibilità di bilancio, anche se “buona”, per un paese come l’Italia che ha un debito pubblico superiore al 130 per cento, rischia di non essere una strada a lungo percorribile. Continuare a rimandare l’aggiustamento fa perdere credibilità e crea incertezza. Tra l’altro, la flessibilità, per dispiegare appieno i suoi effetti, andrebbe supportata da un’ampia azione riformatrice. Eppure, dopo il Jobs Act, i progressi nel campo di giustizia, banche, fisco e Pubblica amministrazione sono stati limitati.
In conclusione, per i paesi che devono risanare le finanze pubbliche e vogliono tornare a crescere, non sembra esserci alternativa al mix di “buona austerità” e riforme. Ciò che è avvenuto nel Regno Unito durante i due mandati di David Cameron lo dimostra. “Se non controlliamo il disavanzo, il disavanzo controlla noi, e pertanto va ridotto” disse al momento dell’insediamento nel maggio del 2010. E, così, ha fatto, riducendo il disavanzo di quasi 6,5 punti percentuali (dal 10,8 del 2010 al 4,4 per cento del 2015). Nel contempo ha avviato un piano di riforme in praticamente tutti gli ambiti dell’economia: dalla Pa al welfare, alla scuola, al mercato del lavoro. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: da una crescita pressoché nulla nel 2007-2011 (0,3 per cento), il 2015 si è chiuso con il pil al 2,3 per cento, ben al di sopra della media europea (2 per cento). Purtroppo, però, Cameron non sarà ricordato per i suoi risultati economici. Passerà alla storia per aver anteposto la sua carriera politica al bene del paese, attraverso l’arma del referendum: un errore pagato a caro prezzo. Ma questa è un’altra storia, che nulla ha a che vedere con il dibattito tra austerità e flessibilità. Può semmai servire da lezione ad altri leader politici.