Liberoscambismi
Già durante le primarie in Michigan, Donald Trump aveva minacciato la Ford, intenzionata a trasferire impianti oltreconfine, di colpirla, se eletto presidente, con una tariffa del 35 per cento su ogni automobile fabbricata in Messico ed esportata negli States. Sotto gli strali del magnate statunitense sono poi finiti il Tanspacific Trade Partnership e il Transatlantic Trade and Investment Partnership. Ma dubbi e perplessità sulla bontà di questi due trattati stanno emergendo anche nei discorsi elettorali della democratica Hillary Clinton. Il fuoco aperto dai concorrenti alla Presidenza stelle e strisce contro il Ttip ci dice allora forse due cose: la prima, che non è vero che esso sia necessariamente funzionale solo all’economia statunitense; la seconda, che probabilmente non esiste proprio l’economia statunitense come non esiste quella europea, ma esistono medie e piccole imprese, statunitensi ed europee, minacciate da un ulteriore allargamento del libero scambio, di cui si avvantaggerebbero soprattutto le grandi multinazionali. In Europa e in Germania in particolare è invece contestata soprattutto la clausola Investor-state dispute settlement contemplata dal Ttip, che prevede che un investitore straniero possa bypassare la magistratura dello stato “ospite” e ricorrere a Corti arbitrali internazionali nel caso di controverse.
Ma invocare la difesa, oltre che di quegli standard e della giurisdizione interna, anche dei posti di lavoro nazionali e quindi la messa al macero dell’intero Ttip è operazione pericolosa e forse intellettualmente disonesta. Diminuire la protezione doganale in alcuni comparti implica infatti aumentare la disoccupazione in quegli stessi comparti e al contempo convogliare risorse verso settori più redditizi e quindi incrementare i livelli occupazionali in questi ultimi. Ma l’opinione pubblica è ovviamente impressionata solo dalle fabbriche che chiudono i battenti, soprattutto quando davanti ai suoi occhi viene agitata la bandiera del patriottismo economico, di cui i produttori protetti si impancano a massimi interpreti mentre i consumatori vengono ridotti a carne da cannone. Nulla di nuovo in questi condizionamenti psicologi, ben conosciuti dai nostri maggiori economisti tra fine Ottocento e inizio Novecento.
Antonio de Viti de Marco, fondatore della teoria pura della finanza pubblica, negli anni a cavallo tra i due secoli, segnati dalla recrudescenza del protezionismo in Italia e in gran parte dell’Europa continentale, avrebbe criticato la protezione doganale cerealicola e siderurgica che mortificava gli interessi delle colture ortofrutticole e dell’industria meccanica, penalizzata dai maggiori costi degli input di ferro e acciaio. I dazi, scriveva de Viti de Marco, favoriscono alcune imprese a scapito di altre, ma “non creano capitale, quindi non possono creare, nel tutto insieme, nuova domanda di lavoro. Essi dunque mutano la direzione naturale degli investimenti, obbligando a sua volta la popolazione lavoratrice a mutare più o meno repentinamente la sua precedente distribuzione tra le varie industrie” (“La politica commerciale e gl’interessi dei lavoratori”, nel Giornale degli economisti, luglio 1904). Ma se il libero scambio aveva dimostrato di saper “assicurare la maggior produzione e la migliore ripartizione della ricchezza” e di “ribassare i prezzi di tutte le cose e rialzare il valore del lavoro”, perché mai, si domandava il sociologo Guglielmo Ferrero, redattore nel 1904 del manifesto della Lega antiprotezionista, le masse avevano “potuto diventare strumento, quasi ovunque, di una politica così antidemocratica e così impopolare?” (“In memoria di Riccardo Cobden”, nel Secolo, 7-8 giugno 1904). Forse la risposta più convincente a tale interrogativo la diede l’economista Gino Borgatta, allievo di Vilfredo Pareto e Luigi Einaudi nonché infaticabile organizzatore del movimento antiprotezionista nell’Italia giolittiana, che nel suo pamphlet “Che cos’è e cosa costa il protezionismo in Italia”, del 1914, osservava che l’“infinita acquiescenza e rassegnazione della enorme maggioranza dei più diversi gruppi economici verso il privilegio economico di gruppi relativamente piccoli ch’essa deve pagare di sua tasca” era da ricercare nella circostanza che “lo spostamento di ricchezza operato dal protezionismo non è capito che da un’infima minoranza di quelli che lo soffrono”.
Certo, le relazioni economiche odierne sono radicalmente mutate da quelle primo novecentesche, alle dinamiche commerciali tra gli stati nazionali europei e tra questi e gli Stati Uniti si sono sostituiti gli antagonismi tra i grandi blocchi del Pacifico e dell’Atlantico ma le riflessioni degli economisti liberoscambisti italiani di inizio Novecento possono ancora risultare utili per comprendere come spesso il “feroce egoismo” degli interessi settoriali e particolari indossi la maschera suadente delle esigenze “dell’economia nazionale”.
Luca Tedesco è Autore del libro “Dal libero scambio all’autarchia. Gino Borgatta e gli ‘interessi dell’economia nazionale’” (Aracne editrice)
tra debito e crescita