Shopping cinese
Roma. “L’acquisizione più ambiziosa che sia mai stata tentata da parte di una società cinese”. Così il Wall Street Journal ha definito la proposta di ChemChina di comprare per 43 miliardi di dollari americani la Syngenta AG, il colosso svizzero dell’agro-industria le cui vendite sono già oggi destinate per oltre il 25 per cento al mercato statunitense. Per capire l’entità del potenziale deal, basti dire che in queste ore è stato annunciato anche il via libera all’operazione da parte del Cfius, il Committee on Foreign Investment in the U.S., organo governativo statunitense che vigila sugli accordi economici che possono costituire un pericolo per la sicurezza nazionale della prima potenza mondiale. Ieri il solo semaforo verde di Washington ha consentito un rialzo a doppia cifra delle azioni di Syngenta, nonostante altri ostacoli potranno presto materializzarsi, Antitrust inclusa.
Riuscirà dunque Ren Jianxin – che con la sua ChemChina lo scorso anno ha rilevato per 7,7 miliardi di dollari l’italiana Pirelli, e che in passato ha ricoperto tra gli altri il ruolo di dirigente della Lega della gioventù comunista – lì dove ha fallito un altro potenziale acquirente di Syngenta come l’americana Monsanto? Si vedrà. Nel frattempo il balletto di avances miliardarie parla da sé. Sollevando un paradosso politico di non poco conto: proprio mentre la scena pubblica americana è calcata da un candidato repubblicano alla Casa Bianca apertamente protezionista nei confronti di Pechino (Donald Trump) e da una sfidante democratica (Hillary Clinton) che critica gli accordi di libero scambio con i paesi asiatici siglati dal presidente democratico in carica, l’ondata di investimenti cinesi all’estero riprende forza negli Stati Uniti. Ma si era mai fermata?
Lo scorso fine settimana André Loesekrug-Pietri, presidente del fondo d’investimento A Capital che opera tra Europa e Cina, ha rilasciato un’intervista a tutta pagina al giornale belga le Soir, così intitolata: “Stiamo dando loro le armi per conquistarci”. Il riferimento è alle modalità con cui la Germania ha consentito a un altro gruppo cinese, Midea, di acquistare la società Kuka per la cifra di 4,6 miliardi di euro. Kuka è un fiore all’occhiello della robotica made in Deutschland, pronto a cavalcare nelle praterie della cosiddetta Industria 4.0. Loesekrug-Pietri riconosce che per i gruppi cinesi in realtà è diventato più difficile fare shopping in Europa: “Quattro o cinque anni fa erano accolti a braccia aperte. Oggi sono costretti a operazioni sovraccosto, visto che due anni fa Kuka valeva 1,5 miliardi di euro e oggi l’hanno pagata 4,6 miliardi, o poco amichevoli come dimostra il tentativo di acquistare il controllo del gruppo di alberghi Accor in Francia”. Ciò nonostante, l’intervistato parla di totale “assenza di reciprocità” per i potenziali compratori europei in Cina e soprattutto lamenta la mancanza di visione su ciò che è davvero strategico per la futura crescita del Vecchio continente. Ironia della sorte: Loesekrug-Pietri, nella stessa intervista di domenica, lodava il sistema di filtraggio dei deal a rischio che invece è applicato negli Stati Uniti. Il tutto a nemmeno 24 ore dal permesso concesso dal Cfius di Washington a ChemChina che fa la corte a Syngenta.
D’altronde l’operatore in questione non dev’essere stato l’unico sul pianeta a rimanere spiazzato dal via libera americano al Dragone. In queste settimane sono tese le relazioni tra Australia e Cina, dopo che il governo conservatore di Canberra ha bloccato all’inizio del mese la vendita di Ausgrid, compagnia elettrica dello stato del New Wales, sostenendo che ragioni di sicurezza interna lo hanno convinto a diffidare dalla cordata animata dal gigante pubblico cinese State Grid (che partecipa tranquillamente all’azionariato dell’italiana Cdp Reti). All’inizio dell’anno Canberra aveva bloccato un’altra società cinese che intendeva acquistare territori di estensione pari all’1 per cento di tutto il paese. Per Nick Bisley, professore di Relazioni internazionali alla Trobe University, l’Australia è “il canarino nella miniera regionale asiatica”: il paese anglosassone vive sulla sua pelle, prima degli altri alleati occidentali, cosa significhi il rallentamento della vicina economia cinese e il tentativo dei suoi investitori di cercare fortuna fuori dal paese comunista. Cosa dice dunque il canarino? Che dopo il “no” dell’esecutivo di Canberra alle due proposte cinesi, si è registrato un picco di attività anti australiane sui media – ufficiali e non – di Pechino. Un avvertimento made in China.