Da Boston un modello per legalizzare Uber tenendo calmi i tassisti
Roma. Per compagnie come Uber che operano all’interno di un quadro di regole poco chiaro, sotto la pressione dell’industria dei taxi che ne chiede la messa al bando e nell’incertezza che un tribunale possa sospendere il servizio in base all’interpretazione di norme scritte in altre epoche, anche l’introduzione di una tassa ad hoc può essere vista come un sollievo. In fondo si tratta di un costo quantificabile e preferibile al caos e all’incertezza. E così è stata accolta positivamente dalle aziende di ride-sharing come Uber e Lyft la legge approvata dal Massachusetts, che da un lato richiede requisiti stringenti sul fronte della sicurezza come controlli sugli autisti e sul veicolo e copertura assicurative e dall’altro introduce una tassa da 20 centesimi per ogni corsa. Ma la particolarità della tassa introdotta dal governatore repubblicano Charlie Baker è che per il 25 per cento, ovvero 5 centesimi a corsa, andrà in un fondo per finanziare l’industria dei taxi. La nuova agenzia statale infatti dovrà sussidiare i tassisti e aiutarli ad adottare nuove tecnologie, probabilmente le stesse che sono alla base del successo delle startup di ride sharing. In pratica a Uber e le altre app, per poter operare in Massachusetts, viene chiesto di pagare i propri concorrenti. La richiesta appare abbastanza assurda e solo fino a qualche tempo fa sarebbe stata giudicata inaccettabile da Travis Kalanick, il fondatore di Uber, che negli anni ha sempre dichiarato di voler distruggere il cartello dei taxi. Ma col tempo le cose sono cambiate, i margini e l’inefficienza dei taxi è talmente alta che i big del settore, Uber e Lyft, hanno accettato di sopportare il prezzo per la normalizzazione e sono soddisfatti dell’accordo. In ballo non ci sono piccole somme, visto che secondo i dati riportati da Michael Farren del Mercatus center della George Mason University solo nella città di Boston lo scorso anno ci sono state oltre 2 milioni di corse al mese attraverso app come Uber: solo per la capitale del Massachusetts sono circa 5 milioni di dollari di gettito l’anno, che per il 25 per cento finiranno nelle tasche dei tassisti.
La soluzione del governatore Baker quindi ha il pregio di mettere d’accordo tutti: le startup che sono libere di lavorare, i tassisti che vengono indennizzati e lo stato che incassa una bella quota di soldi. Naturalmente nessuna corsa è gratis e a pagare questo accordo politico saranno i consumatori su cui ricadranno almeno in parte i maggior costi. Il governatore ha dichiarato che per legge la tassa sarà a carico delle compagnie e non dovrà ricadere sugli utenti, ma naturalmente si tratta di affermazioni di principio che lasciano il tempo che trovano e prima o poi, in un modo o nell’altro, le aziende trasleranno l’imposta sui consumatori. Gli altri sconfitti di questa legge sono le piccole startup che, senza il potere finanziario di Uber e con margini ridotti, verranno probabilmente tagliate fuori, dimostrando ancora una volta la tendenza al monopolio o all’oligopolio dei mercati iper regolamentati: “Non penso che dovremmo entrare nel business di sussidiare i nostri potenziali concorrenti”, ha detto ad esempio Kirill Evdakov, il capo di Fasten, una delle tante piccole Uber nate in America.
La norma approvata dal governatore Baker ha tanti difetti ed probabilmente anche eticamente discutibile, ma ha quantomeno il pregio di superare pragmaticamente una situazione di stallo e di scontro perenne con uno scivolo a favore dei taxi che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe essere provvisorio. E probabilmente il compromesso bostoniano potrebbe essere una soluzione percorribile anche in Italia, ad esempio prevedendo un fondo temporaneo per indennizzare i tassisti che hanno acquistato da poco le licenze e ritirarle dal mercato liberalizzando definitivamente il settore. Ma i tassisti sono disposti a discuterne o vogliono semplicemente conservare lo status quo?