La Spagna continua a crescere anche se il governo è assente
Roma. L’assenza di una guida politica in una nazione europea, di questi tempi, può logicamente rappresentare un rischio esiziale per la ripresa economica. E’ quello che ripetono gli analisti del “rischio politico”, per esempio, a chiunque chieda loro di prevedere le conseguenze del voto referendario in Italia a novembre: che vinca il “sì” o il “no” è importante, ma ancora più lo è sapere se il giorno dopo il voto ci sarà ancora l’attuale governo Renzi al potere o chissà quale altra formazione politica. Il ragionamento che lega l’assenza di guida politica e gli ostacoli alla ripresa è piuttosto intuitivo. Ma un po’ a sopresa non sembra valere per la Spagna, quarta economia dell’Eurozona, brillante nonostante un prolungato stallo politico.
La crescita economica di Madrid è infatti rimasta positiva e stabile dallo scorso dicembre, cioè da quando le inconcludenti elezioni nazionali hanno lasciato il paese senza un esecutivo con pieni poteri. Un nuovo Parlamento, eletto a giugno, ha replicato la situazione di impasse perché nessuno dei quattro principali partiti ha possibilità di avere la maggioranza. Il primo ministro ora facente funzioni, il conservatore Mariano Rajoy, in carica dal 2011 quando Madrid era ancora in recessione, non può proporre leggi ed è possibile che la prossima settimana non riceverà l’appoggio del Parlamento per un altro mandato, aprendo a una terza consultazione elettorale in nove mesi. “C’è da preoccuparsi per la mancanza del governo?”, s’è chiesto dunque il quotidiano elEconomista. “Il pil non dice questo”, è stata la risposta, corroborata dai dati pubblicati ancora giovedì dall’Istituto nazionale di statistica.
Secondo l’Istat iberico, nel secondo trimestre di quest’anno l’economia è cresciuta dello 0,8 per cento – un decimale in più rispetto alle previsioni. Nonostante l’impasse, è migliorata la performance degli investimenti privati – cresciuti per comprare beni strumentali, per rinnovare attrezzature e acquistarne ex novo –, dell’export e dei consumi.
Lady Spread non balla più sulle macerie di governi decadenti o moribondi, come nel 2011, quando terrorizzava l’Italia e minava alle fondamenta l’esistenza del blocco europeo. Il differenziale del rendimento tra i titoli di stato decennali spagnoli e quelli tedeschi è più esiguo di quello italiano dal giugno scorso e il rischio ingovernabilità non sembra più avere un peso specifico rilevante nel determinare il divaricamento dello spread. Gli acquisti di titoli pubblici della Banca centrale europea hanno avuto un ruolo nell’assottigliare i rendimenti dei bond in tutta l’Eurozona ma si sono rivelati efficaci per spingere la crescita più in Spagna che in Italia. Secondo la media degli analisti censiti da Bloomberg nel 2016, l’Italia dovrebbe crescere dell’1 per cento mentre la Spagna del 2,8 per cento (il governo prevede il 3). La differenza principale è che nel maggio 2010 il governo socialista di José Zapatero è stato costretto a iniziare a ridurre la spesa pubblica attraverso misure d’austerità richieste dalla Commissione europea che il suo successore Rajoy, di schieramento opposto, ha poi messo in pratica, anche come condizionalità per ottenere dai partner europei fondi pubblici per salvare un settore bancario piegato dalla recessione durata fino al 2012. In quell’anno, resistendo alle proteste di piazza, Rajoy ha scosso il mercato del lavoro rendendo meno costoso per le aziende licenziare lavoratori a tempo indeterminato e incentivando radicalmente la contrattazione aziendale a discapito di quella nazionale. Scelta funzionale ad adescare investimenti esteri, come nell’industria automobilistica, e a generare un recupero della competitività e l’aumento dei posti di lavoro, anche se la disoccupazione è ancora alta soprattutto nel sud del paese.
Le banche sull’orlo del collasso sono state ricapitalizzate con fondi statali ed europei e parallelamente il settore è stato ristrutturato riducendo il numero degli istituti e delle filiali. Le riforme fiscali hanno avuto probabilmente il peso più significativo: le tasse a carico delle imprese sono state tagliate dal 30 per cento nel 2015 al 25 per cento nel 2016. Riforme che hanno assicurato credito politico al governo Rajoy presso la Germania di Angela Merkel che ha esercitato pressione sulla Commissione europea affinché non multasse Madrid per deficit eccessivo a luglio. La Spagna ha infatti ridotto il rapporto deficit pil di 0,9 punti nel 2015 al 5,1 per cento, a fronte del taglio dell’1,8 per cento richiesto dall’Ue. Di contro però continuano a espandersi gli investimenti privati, che sono aumentati dell’1,3 per cento nel secondo trimestre di quest’anno – il miglior inizio d’anno dal 2010 – tenendo in carreggiata la ripresa. “Non è la spesa pubblica ma le riforme fatte, molte volte strutturali e comandate dalla cosiddetta ‘austerity’ europea, a trascinare ancora l’economia”, dice al Foglio Andrea Giuricin, economista dell’Università Bicocca di stanza a Barcellona. Incertezza è una parola che al momento in Spagna ha meno peso che altrove ma potrebbe riguadagnare importanza proprio per via delle scelte politiche del prossimo governo. “Il tessuto economico della Spagna ora è più robusto”, dice al Foglio Daniele Antonucci, economista di Morgan Stanley, e “quest’anno il paese ha messo il pilota automatico dal punto di vista fiscale”, avendo approvato la Finanziaria per il 2016 prima dell’impasse di governo cominciata nel dicembre scorso, ma “nel 2017 potrebbe essere più complesso tagliare la spesa, tutto dipenderà dalla situazione politica”, aggiunge.